The Newborns' revolution

LA RIVOLUZIONE DEI BEBÈ

Reportage sul Centro di maternità di EMERGENCY nella valle del Panshir, Afghanistan

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   Nel Panshir secondo una leggenda nacquero 5 saggi da cui la valle prese il nome: panch, 5, e shir, leoni - in terra di uomini forti e coraggiosi i saggi erano visti come leoni. Nella vallata venne alla luce, visse combattendo e riposa solennemente in pace – in un mausoleo finanziato dal governo iraniano ed eretto in un paesaggio dalla bellezza mozzafiato – l’eroe nazionale afghano, il comandante dei mujaheddin Ahmad Shah Massoud, talmente venerato da occultare la leggenda dei 5 protettori e diventare il “Leone del Panshir”. Nel Centro di maternità del villaggio di Anabah, nella stessa valle, nascono ogni anno più di 7.500 bambini che non si sa se diventeranno saggi o eroi ma per certo vengono al mondo – in un mondo devastato da una guerra che dura da 41 anni e sembra ancora infinita – assistiti, come le loro mamme, in modo eccellente e completamente gratis. 

   Nel 1999 – all’epoca infuriavano i combattimenti tra l’Alleanza del Nord comandata da Massoud e i Talebani – EMERGENCY comprò una caserma ad Anabah e la trasformò nel suo primo Centro chirurgico per le vittime civili di guerra. Nei primi anni 2000 le condizioni di salute in Afghanistan erano estremamente drammatiche: l’aspettativa di vita alla nascita era di circa 40 anni per entrambi i sessi, la mortalità materna era tra le più alte al mondo, con 1.600 morti materne fra 100.000 nati vivi, 4 bambini su 10 non superavano i 5 anni di età. Nel 2003 l’ONG aprì un Centro di maternità per fornire cura prenatale, ginecologica, ostetrica e neonatale. Sembrava un’idea folle ma funzionò. Nel 2016 inaugurò il nuovo Centro con 104 posti letto, 4 sale parto, 2 operatorie, sale di terapia intensiva per le donne che hanno complicanze durante il parto, di travaglio, ginecologia e osservazione, reparto di neonatologia con sale di  terapia intensiva e semi-intensiva, di isolamento e per la “cura della mamma canguro” (dove i nati prematuri con condizioni stabili vengono trattati col contatto della pelle della mamma), pronto soccorso ostetrico e ambulatori con servizio ecografico. Anche grazie all’apertura di 18 posti di primo soccorso e centri sanitari aperti giorno e notte nelle località più remote e collegati all’ospedale con autoambulanze, il Centro è diventato punto di riferimento pure per le province confinanti, oltre ad accogliere le nomadi Kuchi nei loro passaggi stagionali. Al 30 giugno 2019 ad Anabah sono state effettuate 351.520 visite e sono nati 56.329 bambini.  Solo nello scorso anno sono stati assistiti 7.560 parti. E tutto ciò è completamente gestito da donne! L’ospedale, una cittadella delle donne per le donne, ha formato centinaia di ostetriche e infermiere e alcune specializzande in ostetricia e ginecologia – al momento ne impiega 126 - che sono le protagoniste di una delicata, silenziosa rivoluzione di empowerment femminile all’interno di una società radicalmente patriarcale. 

   Il 15 ottobre EMERGENCY ha pubblicato ‘UNA RIVOLUZIONE SILENZIOSA. Il centro di maternità di EMERGENCY ad Anabah e l'empowerment femminile’,un rapporto basato sulla sua esperienza ventennale sul campo, sulla letteratura esistente e su 370 interviste, a 300 pazienti e 70 operatrici sanitarie locali, uno studio importante sull’attuale condizione della donna in Afghanistan, dove mancano dati nazionali completi e dove le aree più colpite dalla guerra rimangono difficili da raggiungere e osservare. I dati più drammatici rivelano che fuori dalla cittadella almeno il 50% delle donne continuano a partorire in casa (questa la media nazionale, ma nelle zone rurali i parti in casa sono il doppio di quelli in ospedale), assistite solo da parenti anziane, spesso senza aver fatto visite di controllo preventive, e che la mortalità materna è ancora altissima: 1 donna ogni 14 muore per complicazioni legate alla gravidanza. I dati più incoraggianti riguardano lo staff nazionale, che ha in media poco più di 25 anni, ed è nubile per due terzi. Anche se le intervistate dichiarano di essere state fortemente ostacolate dall’opposizione delle famiglie, dalla sicurezza, dalle distanze, alla fine l’ospedale di Anabah rappresenta un porto sicuro e una buona scuola per ostetriche e infermiere appena laureate. La loro maggioranza afferma di essere la prima donna della famiglia ad aver mai lavorato fuori casa (58%), la persona che guadagna più in famiglia (53%), capace di opporsi alle decisioni familiari (61,5%). La pratica nell’ospedale è equiparata dal Ministero della Salute all’università e abilita all’esame di Stato. Le infermiere e ostetriche di Anabah sono molto ricercate dagli altri ospedali. 

   Monika Pernjakovic è la medical coordinator, responsabile del Centro chirurgico, del pediatrico e della maternità. Le chiedo innanzitutto di lei, come faccia ad essere sempre sorridente e disponibile con tutti. “Sono stata più a lungo un’infermiera che un essere umano! Scherzi a parte, sono infermiera da 35 anni, e ho 48 anni. Sono di Belgrado e ho lasciato il mio Paese nel 2011 per lavorare con le organizzazioni umanitarie. Ho una figlia di 22 anni che ora è una cittadina del mondo e sta per trasferirsi per lavoro a Dubai. Ho aspettato che fosse grande abbastanza prima di partire, e l’ho fatto innanzitutto per motivi economici: la guerra ci ha lasciati in condizioni penose. Fra lo staff di EMERGENCY c’è una piccola comunità di serbi perché la scuola per infermieri in Jugoslavia era ottima, e purtroppo abbiamo anche molta pratica in chirurgia di guerra. Una volta sul campo ho capito di essere un’umanitaria”. Mi faccio raccontare la sua esperienza di coordinatrice dello staff locale. “Amo questo lavoro soprattutto per questo staff! Qui ho più di 700 amici, 500 in Panshir e 200 a Kabul, che mi fanno sentire un’infermiera afghana. Chiaramente questo Paese non è uguale in tutte le sue province: a Kabul ogni settimana si perde qualcuno negli attentati mentre qui nel pacifico Panshir, ancora legato alla figura del Leone, l’eroe che salva il mondo, è più facile che ci sia speranza. Sembra paradossale, ma mi è più facile coordinare gli uomini che le donne. Le donne per motivi culturali ascoltano più gli uomini, ma sono ugualmente molto motivate e in gamba. In generale, trovo che gli afghani assomiglino molto ai serbi, sento una forte connessione fra noi. Anche se sono più emotivi di noi: ci portano sulle montagne russe delle loro emozioni, e li amiamo perché ci meravigliano. Per guadagnare il loro rispetto bisogna essere un po’ pazzi e coraggiosi, e non mostrare mai paura. Me ne sono accorta chiaramente con le vittime degli attentati a Kabul: mi guardavano continuamente e se a un certo punto vedevano che avevo paura, li perdevo. Ma se mi mostravo coraggiosa, si sarebbero lanciati nel fuoco con me. Le donne desiderano le nostre stesse cose. Quando mi sono accorta che le guardie all’ingresso facevano lasciare le borsette dei trucchi, ho messo a loro disposizione degli armadietti con la chiave per depositarle dentro l’ospedale. Amano il trucco, le acconciature, gli orecchini, i vestiti. Nel pomeriggio, quando non si vedono più in giro gli uomini della manutenzione, si tolgono i veli. E studiano, lavorano, si impegnano”.  Insomma le cose stanno cambiando? “Credo di sì. Da lontano sembra che le donne afghane siano sempre vessate e sotto il burqa, ma non è così. Kabul è un buon osservatorio perché è una grande città. L’80% delle infermiere sono studentesse universitarie e certamente portano il velo, ma mai il burqa. L’infermiera Madina si è innamorata di un collega e l’ha potuto sposare esattamente come sarebbe avvenuto in occidente. Chiaramente con la nostra presenza da tanti anni influenziamo non solo il sistema sanitario, ma anche le persone. In genere le famiglie propongono possibili mariti, ma le ragazze che lavorano con noi a volte li rifiutano, e per questo non vengono più uccise come accadeva nel passato”. 

   La dottoressa Rabela – le donne afghane si chiamano fra loro solo col primo nome, perché il secondo è quello del padre – ha 34 anni, è sposata da 8 e ha 3 figli. Pratica come specializzanda in ginecologia da 4 anni all’ospedale di Anabah e poiché conosce bene la situazione delle strutture ospedaliere in Afghanistan le chiedo di parlarmene. “Ci sono gli ospedali pubblici, del governo, e quelli privati. Nelle strutture private tutto è a pagamento. I medici tendono a far partorire la stragrande maggioranza delle pazienti con taglio cesareo, nella maggioranza dei casi non necessario e sempre dannoso per i parti successivi, per lucro. A Kabul un cesareo costa tra i 14.000 e 20.000 Afghani, se si aggiunge il costo della stanza e dei vari servizi si può arrivare a spenderne 30.000 (383 Dollari in un Paese dove il reddito medio pro-capite annuale è di circa 650 Dollari). Negli ospedali pubblici invece, in teoria si dovrebbero pagare solo le medicine. In realtà, sottobanco, spesso alle pazienti vengono chieste mazzette per tutto, comprese le pulizie. Se le pazienti non sono protette da conoscenze vengono trattate male. Inoltre, di notte è raro trovare i medici. Ma c’è ben di peggio, purtroppo. Poiché per la nostra religione non è ammesso che le ragazze rimangano incinte fuori dal matrimonio, e la legge vieta l’aborto a meno che la gravidanza non metta a rischio la vita della donna, si praticano molti aborti criminali. Esistono delle cliniche private illegali nei bazar, con medici e ostetriche compiacenti. Nei villaggi invece si ricorre alle mammane. Lo scorso anno arrivò da noi una ragazza di 17 anni dopo un aborto clandestino, purtroppo troppo tardi per poter essere salvata. Ricordo addirittura un servizio della rete televisiva Tolo su una ragazza a cui il fratello e la madre, contadini, avevano praticato un taglio cesareo col coltello da cucina, senza anestesia. La ragazza fu portata dai vicini all’ospedale in coma e sopravvisse. Qui invece tutto è di alta qualità e gratis: le visite, le terapie, le operazioni, le medicine, il cibo, anche le camicie da notte… e un altro aspetto molto positivo è che non sono ammessi i parenti, manco i telefonini per comunicare con loro. Sono permesse solo due visite settimanali di un paio di ore nei giardini. È giusto, perché l’assistenza è completa e non c’è bisogno di altro. Questo serve ad impedire che le suocere – che hanno il potere decisionale in famiglia - interferiscano con le cure. E non parlo del mio caso personale, perché la mia è la migliore, un’insegnante che mi permette di studiare e lavorare fuori di casa”.

   Nel rapporto di EMERGENCY si parla dei tanti pregiudizi che si sono dovuti superare per realizzare un’idea che sembrava folle, a partire dalla presenta “corruzione morale” che avrebbe causato la presenza degli occidentali. Alcuni sono rimasti, per esempio delle malelingue sussurrano che nell’inceneritore dei rifiuti dell’ospedale si brucino i bambini. Sicuramente rimane forte e comune quello contro la fotografia alle donne. “Un giorno”, mi racconta la ginecologa Raffaela Baiocchi, “è arrivato un uomo furibondo, accusandoci di aver fotografato sua moglie. Ma quella che lui aveva preso per una fotografia era in realtà un’ecografia”. Non è stato facile fotografare, spesso mi sono sentita come un elefante in un negozio di cristalli. Sono infinitamente grata a tutte le donne dello staff afghano e internazionale che hanno collaborato con me e alle pazienti che me l'hanno permesso.