Kabul-Rome/A Virus Named Hunger and Violence Against Women

 

UN VIRUS CHE SI CHIAMA FAME

Reportage sul Coronavirus Roma- Kabul-Roma

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “Una delle donne che ci ha chiesto aiuto ha detto: “Il virus ce l’abbiamo da tanto tempo  in casa e si chiama fame. Abbiamo bisogno di cibo”. Le statistiche ufficiali indicano 299 (Johns Hopkins, giovedì 4 giugno)decessi in Afghanistan, ma non sono affidabili. Il governatore della Provincia di Herat Abdul Quayom Rahimi ha dichiarato: “Temo che arrivi il giorno in cui non si potranno nemmeno raccogliere i morti”. Herat è stata la città più colpita all’inizio, quando il vicino Iran ha aperto unilateralmente la frontiera, lasciando tornare a casa gli afgani, preferibilmente quelli malati. L’emergenza sfugge al controllo: si fanno pochissimi tamponi, non si sanno le cifre reali, alcune persone infette sono scappate dagli ospedali. Il lockdown a Kabul è durato dal 28 marzo al 26 maggio, ed è stato esteso a tutto il territorio. Per di più è stato il periodo di Ramadan dal 24 aprile al 23 maggio”. A parlarmi è Susanna Fioretti, presidente di Nove Onlus, fondata da un gruppo di esperti di cooperazione internazionale di cui è entrato a far parte Alberto Cairo, icona umanitaria e cittadino onorario afgano. Susanna, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana ed esperta sociale di genere, ha lavorato in progetti di emergenza e sviluppo in Mauritania, Iran, India, Yemen, Mozambico, Sudan, Sud Sudan e Afghanistan, per la Croce Rossa Italiana, la Croce Rossa Internazionale, il Ministero degli Affari Esteri. Ora lei è bloccata a Roma, Alberto (per scelta) a Kabul. Le chiedo della situazione delle donne perché se il virus si chiama fame sono loro le ultime a mangiare in Afghanistan. “II 2020 secondo molti addetti ai lavori avrebbe dovuto essere ‘ground-breaking’ per la parità di genere. A causa del Covid-19 invece anche i limitati passi avanti fatti rischiano di essere vanificati, perché le donne sono le più penalizzate dagli effetti della pandemia. Nei Paesi in via di sviluppo se da una parte rappresentano circa il 70% degli operatori sanitari e sono quindi molto più esposte al rischio di contagio, dall’altra sono poco o per niente rappresentate nei livelli più alti, dunque non vengono coinvolte nelle decisioni su come affrontare l‘emergenza e le sue conseguenze. Per di più molte donne sono impegnate nell’economia informale, che è la prima a cedere in caso di blocchi. Anche in Italia parte di quelle impiegate ‘al nero’ sono dovute restare a casa perdendo il lavoro. Inoltre, le donne rappresentano la grande maggioranza di chi si occupa del cosiddetto ‘care work’ non retribuito: accudimento di figli, fratelli minori, parenti malati, disabili, oltre a faccende domestiche di ogni tipo. La pandemia aggrava questo peso e chi è riuscita a fatica a procurarsi un guadagno con una piccola attività, spesso non può continuare per mancanza di tempo, facendo così un passo indietro verso la povertà e la dipendenza economica. Anche in campo educativo sono penalizzate soprattutto le femmine nei Paesi dove la scolarizzazione è bassa: se la scuola chiude, o bambine e ragazze vengono tenute in casa perché la pandemia aumenta i bisogni familiari, spesso a scuola non tornano mai più. Inoltre, quando le risorse scarseggiano, vengono tagliati i fondi a servizi sanitari importanti per le donne, come i consultori per la contraccezione, per cui per esempio possono esserci molte più adolescenti incinte, o quelli di assistenza psicologica per le vittime di violenza. E l’impatto che più temo del Coronavirus sulle donne afghane è proprio la violenza. A Herat il centro di ascolto per le donne maltrattate era stato ubicato in un ospedale, così potevano andarci di nascosto, senza suscitare sospetti, ma è stato chiuso e trasformato in centro anti-Covid. In Afghanistan non ci sono dati certi sul numero di donne che subiscono violenza, perché molti casi restano sconosciuti. Le stime ufficiali parlano del 51%, e se a livello mondiale si prevede un aumento di oltre il 20% durante il lockdown, in Afghanistan si teme si vada ben oltre. E lì è difficile salvarsi. Quando una donna grande o piccola trova la forza di scappare, se non ha contatti con gli enti che offrono fra mille rischi protezione alle vittime di violenza, si rivolge alla polizia, che quasi sempre la riporta alla famiglia con conseguenze drammatiche”.

   Nove Onlus ha formato finora oltre 2.200 ragazze afghane, ha trovato a centinaia di loro posti di lavoro qualificati e retribuiti. In meno di 2 anni ha fatto ottenere la patente di guida a quasi 200 donne (il 16,4% di tutte le patentate di Kabul in 5 anni), e lanciato il ‘Pink Shuttle’, il primo servizio di trasporto solo per donne, con pulmini guidati da donne, finanziato da ‘Only the Brave Foundation’. Durante l’emergenza Coronavirus, grazie ai fondi elargiti da ‘The Nando and Elsa Peretti Foundation’ ha aiutato a Kabul 190 famiglie dei distretti più poveri, in molte delle quali il capofamiglia è una donna, distribuendo a ognuna 70 chili di alimenti essenziali, mascherine, disinfettanti e guanti, mentre a 125 famiglie di persone disabili ha consegnato lo stesso kit di materiale igienico e un voucher per l’acquisto di cibo. L’intervento, in cui è stato coinvolto un medico per insegnare le misure che prevengono il contagio, ha aiutato nel complesso oltre 2500 persone (ogni famiglia afgana è composta in media di 8 persone). “Quando un anziano del distretto dove stavamo distribuendo ha saputo che gli aiuti provenivano da una piccola organizzazione italiana, ha pianto dalla commozione, perché aveva visto in televisione che l’Italia è uno dei Paesi più colpiti dal Covid-19”. Nove Onlus è impegnata nell’emergenza Coronavirus anche in Italia. A Roma e Ladispoli ha partecipato ad acquisto e distribuzione di generi alimentari a famiglie in difficoltà e senzatetto, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana; lo stesso ha fatto per donne vulnerabili assistite dalla Cooperativa l’Accoglienza. A Salerno e Roccapiemonte, insieme a Coldiretti, ha fornito generi di prima necessità che sono stati distribuiti a famiglie indigenti attraverso la Caritas, aiutando anche le piccole realtà produttive locali in crisi per il blocco della distribuzione.

   Susanna Fioretti è nata e vissuta nella ‘Roma bene’ fino a quando, dopo aver seguito il corso di infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana, ha cominciato a fare servizio nel campo Casilino 900, dove fra risse e prostituzione convivevano nomadi e emigrati campani che avevano  disposizione una sola  fontana e una fossa come unico bagno. “E’ allora che ho aperto gli occhi e ho capito che cosa volevo fare”. Quando i figli sono cresciuti ha cambiato vita: affrontata una  battaglia ecologica contro il progetto di una gigantesca centrale termoelettrica su una delle ultime spiagge dove nidificavano le tartarughe nell’isola di Rodi, e costruita lì la prima casa ecologica dell’isola con i muri di paglia, ha cominciato il lavoro di cooperante. Ha raccontato le sue avventure umane e umanitarie in 4 libri:  Frammenti di una storia romana(Palombi 1989) sull’esperienza del Casilino 900, La tela di Penelope (Sideral 2004) e  Involontaria(Einaudi 2011) in cui ha messo tutto insieme, amori, figli, nipoti, missioni, perché “la mia vita è questa”, e  Quattro al secondo (Stampa Alternativa 2017, titolo riferito al numero di nascite sulla terra) che racconta le storie di quattro bambine nate in  condizioni e luoghi molto diversi, riflettendo  su quanto conta dove, come e da chi si nasce e cresce.

   Le chiedo se pensa che il Coronavirus possa essere l’occasione per ricostruire un mondo migliore. “Poiché la pandemia amplifica le diseguagliane, sono d’accordo con chi raccomanda di impegnarsi per evitarlo e cogliere invece l’opportunità di ricostruire società più inclusive, che mettano le donne, le ragazze e le bambine al centro. Come? Assicurandosi che siano adeguatamente rappresentate in tutte le sedi dove si prendono le decisioni, anche in Italia, dove si sono viste ben poche donne nelle varie task forces. E privilegiandole in ogni risposta all’impatto socio-economico, senza dimenticare l’economia informale, da cui moltissime dipendono. Se necessario ricorrendo a sanatorie: perché sanare lo svantaggio femminile dovrebbe essere lecito almeno quanto lo è stato regolarizzare la posizione di chi ha frodato il fisco. Le privazioni derivanti dal Covid-19 che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle potrebbero avere anche il risvolto positivo di avvicinarci alla parte di umanità che subisce costantemente e ben più duramente stigma, paura, mancanza di libertà, impossibilità di stare accanto a chi si ama, veri razionamenti, fame e tanto altro. L’ambiente non è il mio campo ma chiunque può vedere l’effetto che anche su di esso ha avuto il lockdown, creando una sorta di gigantesco laboratorio che nessun ambientalista si è mai sognato di avere. Chi avrebbe potuto bloccare intere città e nazioni, chiudere in casa miliardi di persone per studiare dal vivo la relazione tra traffico di ogni tipo e inquinamento, e tutto ciò che ne deriva per animali selvatici, acque, spazzatura e via dicendo? Penso che abbiamo imparato cose importanti da tutto questo e spero che riusciremo a servircene per ripartire con una visione nuova, in economia ma non solo”.  

 

UN VIRUS CHE SI CHIAMA VIOLENZA SULLE DONNE

Reportage sul Coronavirus Roma-Kabul-Roma

di Laura Salvinelli

 

   “La separazione per me non è stata una liberazione ma un aumento di tensione, perché mentre il pazzo in casa in qualche modo lo gestivo, fuori casa è diventato una scheggia impazzita. Ogni giorno che mi alzo mi chiedo cosa succederà oggi. Sono sempre sotto botta, mi sembra che la vita mi abbia puntato.E ora col Coronavirus le cose si sono aggravate: io e i miei 2 figli stiamo uno sui piedi degli altri, la didattica, che è il mio lavoro, non funziona a distanza, devo fare i compiti per i ragazzi che sono peggiorati, uno spacca la casa… e io non sono la dea Kalì”. Una donna vittima di violenza è in colloquio con un’operatrice del centro antiviolenza dell’organizzazione di volontariato GiuridicaMente Libera del Pigneto a Roma. Superata la 1° fase del lockdown con le dovute precauzioni stanno ricominciando gli incontri. Chiedo a Giulia Masi, avvocata, presidente dell’associazione e operatrice, una storia per avere un’idea di come stanno aiutando le donne durante la pandemia. “Comunicando solo attraverso WhatsApp siamo riuscite a organizzare la fuoriuscita da casa di una donna che il marito aveva provato ad affogare e l’abbiamo messa in protezione. Le abbiamo scritto su messaggi tutto quello che doveva portarsi via e nell’arco di mezza giornata l’abbiamo sostenuta nel lasciare la casa, è stato più semplice perché non ha figli. Con la scusa di andare a fare la spesa è uscita e non è più tornata. Abbiamo finalmente potuto vederla in volto con una videochiamata. L’abbiamo messa in protezione in un residence convenzionato poiché le case rifugio, che hanno già pochissimi posti disponibili, non sono sufficienti per accogliere nuove donne durante l’epidemia”. Le operatrici del centro emanano energia femminista attiva. Anche se formate, ci tengono a non professionalizzare il tema della violenza di genere, che non è solo un problema legale o psicologico ma soprattutto culturale, e va affrontato innanzitutto attraverso una relazione fra donne alla pari. A tutelare la donna, non assisterla. Considerano la violenza di genere una questione culturale, non una psicopatologia sociale. GiuridicaMente Libera è una delle 130 realtà tra associazioni, gruppi di auto mutuo aiuto, centri antiviolenza, sportelli, case rifugio, professioniste, eccetera della rete nazionale Reama per l’empowerment e l’auto mutuo aiuto della Fondazione Pangea Onlus. Reama ha uno sportello online che mette le donne in contatto con l’aiuto più vicino.

   Simona Lanzoni è coordinatrice di Reama, vicepresidente di Pangea e del GREVIO del Consiglio d’Europa, il gruppo di esperte in azione contro la violenza di genere e la violenza domestica.  Ha denunciato l’iniziale crollo delle richieste d’aiuto ai centri nonostante l’aumento della violenza e l’inaccessibilità delle case rifugio. Le domando se le denunce hanno avuto effetto, com’è la situazione ora e cosa propone per il post-emergenza. “Il Ministero dell’Interno e il Dipartimento delle pari opportunità hanno messo a disposizione nuove case rifugio, anche se non sappiamo quante siano e se saranno permanenti; le procure, la polizia e la magistratura hanno accelerato le procedure e sono stati emessi più ordini di protezione per le donne soprattutto in ambito penale; il Dipartimento per le pari opportunità ha lanciato una grande campagna informativa per cui le donne sono tornate a chiedere aiuto, anche se avrebbero dovuto tradurla almeno in inglese, francese e arabo perché nei servizi bisogna considerare tutte le donne, anche le straniere. Insomma una risposta da parte delle istituzioni c’è stata, anche se parziale. Il vero problema è stato quello della tempestività, cruciale durante le emergenze. È pure vero che è stata la prima grande emergenza che ha coinvolto 60 milioni di persone: diciamo che è stata una prova collettiva, una bella lezione per tutta l’Italia. Ora si deve lavorare per consolidare e portare avanti le buone pratiche attuate in questo periodo. Secondo me è pure fondamentale considerare la violenza subita dai minori. Uno dei grossi nodi del periodo è che i figli sono rimasti chiusi in casa con le mamme e se c’è stata violenza, l’hanno subita anche loro, almeno psicologicamente, se non anche fisicamente. È allarmante che ancora le istituzioni non si rendano conto di quanto la violenza assistita incida sul rigenerare la violenza per la coazione a ripetere, o come vittime o come carnefici”. Conclude le sue riflessioni sul Coronavirus: “Credo che dopo l’emergenza bisognerà ripartire prendendo in considerazione le raccomandazioni del GREVIO, cioè: prevenzione, protezione e perseguimento dei colpevoli, il tutto con l’idea delle politiche integrate”. 

   Infine, le chiedo se pensa come me che quella che quella scatenata contro Silvia Romano sia violenza misogina. “Io la vedo come violenza su Silvia solo perché donna. Quando si parla degli uomini non si sente dire mai niente. Forse perché sono le donne che dovrebbero fare i discorsi violenti nei loro confronti? Forse questo dimostra che le donne non sono così violente?”