Women Artists for Africa

Artiste per l'Africa - Artiste del cambiamento

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   Faith ha 17 anni e allatta il suo piccolo Kiran di 4 mesi. È una mamma single: il suo compagno quando ha saputo che è rimasta incinta se l’è filata e ora lei, che ha lasciato la scuola, cresce il bebè a casa dei suoi genitori. Una storia identica a quella descritta magistralmente da Ngugi wa Thiongo, keniano e uno dei più importanti scrittori africani, nel “Diavolo in croce” pubblicato più di 40 anni fa. Per fortuna non più l’unica. Sono a Nairobi per documentare il progetto “ArtXchange” che mi permette di entrare nel mondo delle creative che stanno cambiando quel modello per sé e per tutte le donne.

   Beatrice Wanjiku è una delle pittrici più conosciute del Kenya. È nata nel 1978, e vive e ha un grande studio sulle colline Ngong tanto amate da Karen Blixen, dove la incontro. Non si è mai sposata, non ha avuto figli e vive felicemente circondata da cani e gatti. Espone in Africa, Europa e negli Stati Uniti. Ha avuto dei genitori eccezionali, che l’hanno incoraggiata a fare della pittura la sua professione. “L’arte è innata in me”, mi racconta “da piccola scarabocchiavo sempre sui muri ed ero affascinata dai quadri. Crescendo l’ho studiata e ho iniziato a lavorare con la pittura. La mia serie “Mortalità” ha segnato una svolta: elaborando su tela il dolore della perdita della persona più importante della mia vita, mia madre, ho trovato il mio stile. Non dipingo per dipingere, c’è sempre una storia personale o del contesto in cui vivo che ispira il mio lavoro. Nelle mie opere racconto questioni che mi riguardano in quanto donna. Ho iniziato dipingendo autoritratti per conoscermi meglio, prodotto la serie “Camicie di forza” sulle costrizioni imposte dal mondo patriarcale, recentemente ho lavorato su un caso di una violenza contro una donna a cui il marito aveva tagliato le mani perché secondo lui “colpevole” di non dargli figli, ma bisogna anche in un certo senso separarsi dal proprio io per raccontare una storia che tocchi tutti in quanto esseri umani, per cui dipingo facce e corpi che non sono né maschili né femminili. Il mio lavoro, che sembra tanto violento, è in realtà pieno della speranza di un cambiamento, forse dell’utopia di un mondo migliore. Per quanto caotico sia il mondo esterno, immagino sempre la possibilità di realizzare una versione migliore di se stessi”. I suoi lavori sono a tecnica mista su tela. I magnifici disegni su carta sono studi che verranno trasferiti su tela. I suoi corpi mi ricordano Michelangelo per la potenza e Goya per la drammaticità. Sono fisici, fatti di carne e sangue e muscoli e organi interni, e anche psicologici, di vuoti e solitudini e follie: “Ogni mio lavoro inizia dalla forma del corpo, che amo, poi dipingendo cerco di estrarne l’anima nel tentativo di capire la nostra realtà di esseri umani”. Il suo studio mi sembra un enorme grembo in cui si rappresenta il mistero della vita, violento e meraviglioso. Dalla porta aperta insieme alla luce entrano le voci di una natura rassicurante: il canto degli uccelli e un abbaiare giocoso dei cani. 

   Sitawa Namwalie, scrittrice, poetessa, drammaturga e performer, classe 1958, ha perso la madre da pochi giorni, e a lei, una “guerriera” che le ha insegnato la lotta e il glamour, dedica questo servizio. Si considera estremamente fortunata per i genitori che ha avuto, che l’hanno sempre sostenuta e le hanno permesso le migliori opportunità. Quando è diventata scrittrice ha attinto alla fonte infinita delle storie di 10 generazioni che il padre le raccontava quando era una bambina “dolorosamente” timida ma capace di ascoltare. Ha lasciato il marito un paio di anni fa e i suoi 3 figli vivono con lei. Lavora da anni sulle questioni di genere in Kenya. Cura la mostra, un progetto ancora in corso e che diventerà anche un libro, “Le minigonne delle nostre nonne”: la storia delle donne attraverso le fotografie e i racconti di come si sono vestite e hanno acconciato i loro capelli (che “per le africane sono tutto”) dagli anni ’60 in poi, da un passato in cui vivevano seminude, in minigonna senza mutande, e non venivano molestate, al presente pieno di violenza. Siamo nella sua bella casa, dove si respira accoglienza, benessere e cultura - ogni tanto si affaccia uno dei suoi 2 figli, la figlia l’ha accompagnata a scuola prima che arrivassi. Le chiedo com’è essere donna e artista nel suo Paese. “La donna in Kenya deve essere dura perché l’ambiente di lavoro le dice che lei non dovrebbe essere lì. Nella mia società non ho il permesso di essere come sono. Bisogna essere toste per superare anni di resistenze. Bisogna esserlo dappertutto, ma qui anche più che altrove. E poiché i ruoli iniziano a essere ridefiniti e molte donne raggiungono posizioni che erano solo maschili, e come sempre le persone non rinunciano facilmente al potere, di contraccolpo si scatena molta violenza di genere. La colpevolizzazione delle donne vittime di femminicidio abbassa il livello delle inibizioni e autorizza altri uomini a ripeterlo. Il nostro è un Paese costruito con la brutalità, che continua anche dopo il colonialismo. Ma la buona notizia è che a maggio è stata nominata la prima Presidente della Corte Suprema, Martha Koome: ora le 3 cariche più importanti del sistema giudiziario sono tutte in mano alle donne” mi dice entusiasta, e aggiunge: “La bellezza dell’arte è che è meno facile da controllare, almeno adesso. Ma ci sono ancora poche donne perché hanno già così tante responsabilità addosso che devono aver raggiunto un certo livello di fiducia in se stesse per avere il coraggio di dedicarsi all’arte”. Conclude positiva: “Sto esplorando la mia vita nell’arte, ma sono madre e la mia più grande creazione sono i miei 3 figli, che hanno ancora bisogno di me: il più piccolo ha 16 anni. Arriverà il momento in cui mi lancerò ancora più lontano”. 

   La ventiseienne Labdi è cantautrice e strumentista, suona l’orutu, il violino a una corda tradizionale della tribù dei Luo. Non è la prima artista della sua famiglia, che proviene da Kisumu sul Lago Vittoria, “Nam Lolwe” col nome “vero”, ma è la prima donna del suo popolo a infrangere il tabù relativo a suonare quello strumento. Vive da sola a Nairobi, è single e focalizzata sulla musica. Ci incontriamo nello studio di un gruppo di artisti di cui fa parte. Le chiedo qual è il ruolo della donna nella sua cultura di origine. “Nella nostra società le donne e gli uomini hanno ruoli diversi e ben precisi. E anche la musica è funzionale: c’è quella per le cerimonie, i matrimoni, i funerali eccetera. Abbiamo musiche e danze specifiche per le donne e per gli uomini. Le stesse parole definiscono i generi: orutu inizia per o, quindi è maschile. Le donne non possono suonare gli strumenti che vegono associati alla sessualità, per esempio i tamburi perché bisogna metterli fra le gambe, o l’orutu, che ha una forma fallica. La mia bisnonna si nascondeva nei campi dove il granturco era più alto per suonare. La società africana post-coloniale è diventata ancora più patriarcale e ogni simbolo di potere, come gli strumenti, è negato alle donne. Ma i tempi stanno cambiando, quindi perché non rompere i tabù? Nella mia famiglia non ho avuto problemi, perché per fortuna mio nonno e mio padre sono femministi. Ma chiaramente non è stato facile: in Kenya la musica è un club per uomini, in cui ci sono enormi dislivelli di trattamento a svantaggio delle donne. In uno dei festival a cui ho partecipato, ho visto che la mazzetta di banconote con cui mi pagavano era 5 o 6 volte più sottile di quella dei miei colleghi. E le artiste vengono molestate, trattate come prostitute. Se non hai i soldi per pagare lo studio o altro, e fare musica è molto caro, devi pagare col tuo corpo. Le cose stanno cambiando, ma ancora molto lentamente perché il sistema ha radici profonde, e per il vero cambiamento dovremo aspettare decenni: parliamo tanto, però quando entriamo nella cabina elettorale, votiamo il candidato della nostra tribù e confermiamo quel sistema”. Ci tiene a dichiarare la sua missione: “Voglio ispirare i giovani africani a rivalutare gli strumenti tradizionali. E voglio ispirare le donne a esprimersi nell’arte”.

   Syowya Kyambi vive in uno spazio potente e magico, dalla bellezza mozzafiato, che confina - attraverso un corso d’acqua che non è certo una barriera per i leoni - col Parco Nazionale di Nairobi. Il parco è così vicino alla metropoli che le foto degli animali hanno per sfondo i grattacieli. Non è un caso, secondo me, che le uniche 3 proprietà della zona non recintate appartengano ad artisti. “Quando ospitiamo le residenze con molte persone, accendiamo dei fuochi per tenere lontani i leoni, ma non vogliamo vivere chiusi in un recinto. Siamo felici di vivere nel loro terrirorio” mi dice, mentre mi mostra il punto esatto in cui inizia la Rift Valley. Nel suo spazio l’arte non è separata dalla vita.  Ci vive col figlio di 15 anni, il suo compagno e il collettivo “Untethered magic”, magia senza legami, con cui lavora. È in continua trasformazione, per un progetto green di riforestazione con alberi locali e di costruzione di nuove piccole abitazioni ecologiche per residenze varie. Syowya è nata nel 1979 a Nairobi da un kenyota e una tedesca. Il papà mentre studiava pediatria in Germania si innamorò della mamma, e tornò con lei in Kenya per costruire il Paese indipendente e la sua famiglia. Ha studiato arte in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e ha esposto i suoi lavori in cui incorpora scultura, fotografia, video, suono, disegno, installazione e performance in Africa, Messico, Europa e negli Stati Uniti. “I miei lavori all’inizio nascevano dalle storie dei miei genitori, che hanno vissuto epoche storiche monumentali, ora sono sempre interessata alla storia e alle memorie, ma non solo quelle collegate alla mia famiglia. Lavoro con la storia perché non è stata scritta da tutti. Creo installazioni e poi uso la performance per cambiarle o iniziarle o lasciare una traccia. I temi che tratto sono la memoria e l’identità, cerco di trovare nuovi modi di condividerli e discuterli nell’ambiente in cui vivo o mi esibisco. Il nostro collettivo è interessato al processo, all’esplorazione, alla sperimentazione e al dialogo più che al prodotto, e all’autosufficienza, con agricoltura indigena ed energia solare, per noi e le residenze che ospitiamo”. Qualche ora dopo che sono tornata a casa, mi manda un messaggio in cui scrive che avevano appena ricevuto la gradita visita di un leone proprio nel giardino in cui avevamo parlato.

   Infine nello studio del pittore Xavier Verhoest incontro Chiara Camozzi, architetto, 46 anni, in Kenya dal 2007. È la referente tecnica per il settore cultura dell’ONG CISP (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) dal 2014. “Il CISP crede fortemente nelle potenzialità dell'arte e della cultura per favorire il dialogo, la comprensione reciproca, la tolleranza e il rispetto tra le persone. Le arti e la cultura possono essere sostenute per promuovere l'inclusione sociale e la coesione, la pace e la protezione delle persone vulnerabili, e allo stesso tempo come mezzo per favorire lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro dignitosi. ArtXchange è un progetto pilota cofinanziato dall’Unione Europea nel settore culturale e creativo in cui si supporta lo sviluppo di competenze di giovani professionisti del settore e si incoraggia lo scambio tra artisti africani ed europei. È uno scambio di buone pratiche, innovazioni e conoscenze nel settore culturale dall’Europa verso l’Africa e dall’Africa verso l’Europa” mi spiega. “La scena culturale di Nairobi è abbastanza vivace e mentre fino a qualche anno fa era dominata dagli uomini, ora tante donne sono riuscite ad imporsi come creative e hanno ottenuto riconoscimenti anche internazionali. Molte di loro usano l’arte per affrontare questioni legate al genere, per denunciare la loro marginalizzazione e la mancanza di pari opportunità, la violenza che subiscono. Finora abbiamo ottenuto un ottimo riscontro da parte degli artisti perché non ci sono molti progetti e finanziamenti in questo settore, quindi c’è bisogno di queste iniziative”.