Those Who Remain

SUDAN – LA PACE CHE RIMANE

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “La battaglia che ho combattuto in me stessa per decidere se restare nel Sudan in guerra o rimpatriare come quasi la totalità della comunità internazionale non è stata semplice. Da una parte c’era il mio lavoro, che mantiene in vita i pazienti, e dall’altra parte la mia famiglia. Quando ho preso la decisione l’ho comunicata ai miei figli che l’hanno accettata, e senza parlarne troppo mi sostengono a distanza. In famiglia sono molto importante dal punto di vista affettivo e utile, ma il mio ruolo di nonna può essere sostituito temporaneamente, mentre la mia presenza qui è davvero indispensabile. Mi sono detta che in questo momento va giocato questo ruolo e spero di aver ragione”.  A parlarci su video è la dottoressa Nicoletta Erba, ematologa di Lecco, che lavora da 5 anni nel Centro Salam di cardiochirurgia di Khartoum di EMERGENCY. “Per molti giorni dall’inizio dei combattimenti l’ospedale si è trasformato in un accampamento perché il personale locale non poteva tornare a casa. Ora la maggioranza è andata a casa, e gli espatriati che hanno voluto sono stati evacuati. Per quasi 2 mesi siamo rimasti in 7, tutti italiani, a tenere aperto il Centro. Stanno arrivando in supporto altri colleghi, con un viaggio molto complicato” racconta. “Io lavoro nell’ambulatorio per la sorveglianza della terapia anticoagulante. Quasi tutti i pazienti operati da noi sono portatori di valvole meccaniche e hanno bisogno per tutta la vita di un farmaco complesso da usare perché necessita una fine regolazione del dosaggio attraverso esami di laboratorio che devono essere eseguiti con una certa periodicità. Già prima dei combattimenti non era facile continuare la cura in un Paese immenso e povero, dove il costo della vita era lievitato in modo esorbitante. Ora solo il 35-40% riesce a raggiungere la nostra clinica dove offriamo gratis i test, la prescrizione, le terapie e i farmaci in mezza giornata lavorativa. Il personale della reception sta facendo un lavoro encomiabile per tentare di contattare quelli che non si presentano. Dallo scorso anno avevamo aperto un programma specifico per le pazienti per cui la gravidanza comporta alto rischio di complicanze e mortalità anche per il bambino. L’età media delle nostre pazienti è di 26-27 anni. In genere hanno almeno 3 figli ma ne possono avere anche 10. Sono donne che considerano la maternità come l’occasione per valorizzare se stesse. Spesso sfidano i rischi legati alle gravidanze pur di realizzare l’obiettivo di diventare madri. 4 su 10 sono analfabete. Stavamo affrontando il problema della prevenzione delle gravidanze che qui è molto limitata. Abbiamo iniziato ad impiantare dispositivi contraccettivi ormonali sottocutanei con l’approvazione del Ministero della Salute sudanese. Questo programma è stato posto in secondo piano dalla guerra” riporta. “Una recente indagine ha confermato come la malattia cronica rappresenti per la donna un fattore di disabilità sociale. La disabilità fisica viene considerata meno rilevante della disabilità sociale che è il risultato di come la donna si percepisce e viene percepita come malata. Questo causa un ruolo di marginalità con mancanza di prospettive e riduzione delle scelte di vita. Una mia paziente, una ragazza, ha descritto perfettamente la disabilità sociale: “faccio bene la terapia anticoagulante, sono viva, sono sana, però la mia vita non vale niente, perché in questa situazione non mi sposerò mai e sarò sempre di peso per la mia famiglia”. Ora a tutto ciò si aggiunge la guerra. Un’infermiera di Omdurman ci racconta di momenti di panico durante i pesanti bombardamenti. Una mia collaboratrice non è rientrata nella sua città perché ha saputo di ricoveri di donne stuprate. Eppure, lo staff della terapia anticoagulante, che è soprattutto femminile, si sta dimostrando molto sensibile e sta lavorando intensamente per mantenere un buon livello. Questa è una buona notizia” conclude con una nota positiva la dottoressa Erba.

   Dopo 2 guerre civili durate 35 anni e finite con la separazione del Sudan del Sud, il conflitto del Darfur, 30 anni di feroce dittatura di Omar al-Bashir, un inizio di rivoluzione pacifica dei civili per la democrazia - in cui le donne sono state coraggiose protagoniste - e vari colpi di Stato, il 15 aprile in Sudan sono iniziati violenti scontri fra l’esercito regolare e le milizie paramilitari Rsf (Rapid Support Forces). EMERGENCY è presente in questo complicatissimo Paese con i Centri pediatrici di Nyala e Port Sudan oltre al Centro Salam di cardiochirurgia, l’ospedale che, come gli altri dell’Ong, per il suo fondatore, il dottor Gino Strada, avrebbe dovuto essere “scandalosamente bello”, perché “scandalosamente bella” è l’idea del diritto alla cura, gratis, per tutti. Il Centro pediatrico di Mayo, che ha curato più di 300.000 bambini di un campo profughi che vivevano già in condizioni disastrose alle porte di Khartoum, è stato chiuso per motivi di sicurezza. Che ne sarà di quei bambini? Saranno fra gli oltre 2 milioni di sfollati o gli oltre 2.800 morti stimati dall’organizzazione specializzata nella collezione di dati dei conflitti ACLED, cifre che si temono molto inferiori a quelle reali?  

   “Tutte le guerre sono terribili, e una guerra combattuta in una città con 10 milioni di abitanti è una catastrofe” dice da Khartoum, sempre su video, il dottor Franco Masini, cardiologo, ex responsabile dell’Unità Coronarica dell’Ospedale di Parma, da 10 anni al Salam, da 3 suo coordinatore medico. “Abbiamo ridotto al massimo il numero degli interventi per motivi di sicurezza: se succedesse qualcosa, i pazienti critici non potrebbero essere evacuati. Com’è stato in Italia per il Covid, c’è un problema di sicurezza, e ci sarà un problema enorme di salute perché quelli che hanno bisogno di essere curati non si stanno curando. La mia famiglia, mia moglie e un figlio avuto da un precedente matrimonio, è molto preoccupata per la mia scelta di restare, ma è altrettanto solidale. Io mi trovo qui e semplicemente continuo a lavorare, come chi lo faceva durante la pandemia. Altrimenti farei un altro mestiere”. Aggiunge: “Bisogna sottolineare l’importanza dell’unica cardiochirurgia gratuita e d’eccellenza di tutto il continente, che cura pazienti di una trentina di Stati africani e non solo. Lo scorso anno abbiamo festeggiato il decimillesimo intervento! Se ce ne andassimo, non so cosa troveremmo al ritorno. Inoltre, il personale locale sta manifestando un grosso attaccamento all’ospedale e ci chiede di restare. È questo il motivo per cui siamo qui”. Il Centro continua a dare una possibilità alla pace.

“Ho sempre pensato che l’unico modo di dare una possibilità alla pace sia garantire più diritti per tutti. Il diritto a essere curati è il diritto decisivo, fondamentale, perché fa la differenza tra vivere e morire. In quell’ospedale volevamo dare contenuto a quel diritto e farlo per quante più persone possibili, senza guardare chi erano, da dove venivano, né se potevano pagare. Per questo battezzammo il centro con un nome che era un obiettivo: Salam, pace.”

Gino Strada, Una persona alla volta (Feltrinelli, 2022)