Sons of Nobody, Sons of Everybody

UGANDA – LA BELLEZZA CHE CURA

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “La maggior parte dei padri scompaiono quando scoprono che i loro figli sono malati, e le madri sono spesso costrette ad aspettare che muoiano in casa. In questo Paese non si ha diritto alle cure se non si hanno i soldi. Questo ospedale è un sogno diventato realtà”. Ce lo dice Jane Namgala Majale, 28 anni, assistente sociale, dopo un colloquio con la mamma di un paziente. Jane, che ha perso il papà prima che nascesse e la mamma a sei mesi, è cresciuta in orfanotrofio fino a 18 anni, dove ha capito che mestiere avrebbe fatto. Siamo nel Centro di chirurgia pediatrica di EMERGENCY a Entebbe, nell’unico ospedale di medicina d’eccellenza completamente gratuito in Uganda, nel solo edificio progettato – pro bono - da Renzo Piano e TAMassociati per tutta l’Africa. Un sogno che due amici, il dottor Gino Strada che credeva che la medicina d’eccellenza fosse un diritto di tutti, e l’archistar che vede nel bello, che è anche buono, la massima aspirazione dell’umanità, hanno fatto diventare realtà. Perché qui? Perché per una popolazione di 47,7 milioni di persone, di cui la metà ha meno di 15 anni, c’erano 4 chirurghi pediatri. E perché l’Uganda è uno dei 15 Paesi del progetto ANME (African Network of Medical Excellence – Rete sanitaria d’eccellenza in Africa) per la costruzione di ospedali d’eccellenza, punti di riferimento per tutto il continente. Questo di Entebbe è il secondo del progetto dopo il Centro di cardiochirurgia Salam di Khartoum, che dall’apertura nel 2007 ha operato pazienti di 32 nazioni, di cui 28 africane.

  Le mura dell’ospedale sono costruite con la tecnica tradizionale del pisé, che usa la terra cruda, un’argilla rossa, per evitare la dispersione del caldo e del freddo. Un impianto di 2.500 pannelli fotovoltaici produce il 30% del suo fabbisogno elettrico. Il giardino di prati all’inglese e tanti alberi di jacaranda si affaccia sul lago Vittoria ed è popolato da molte specie di uccelli, fra cui la nobile gru coronata grigia, l’uccello nazionale che è sulla bandiera e sullo stemma dell’Uganda, e da plebee, acrobatiche scimmie Vervet. Il bello è buono perché è sostenibile, e fa parte della cura. Il Centro dà lavoro a uno staff di più di 400 persone, di cui il 90% locali. Come tutti gli ospedali di EMERGENCY, è un polo formativo di professioni mediche e sanitarie estremamente necessarie. Poiché qui nella stregoneria, nel juju, ci credono più o meno tutti, dai villaggi al Parlamento, immagino che i bambini vedano l’edificio come un’astronave atterrata nel paradiso terreste, e il suo staff come alieni dotati di poteri magici. 

   Ci facciamo raccontare dei bambini e delle esperienze in missione da alcune delle donne di questo staff. “Questo Paese si basa sulle nonne e tantissimi bambini arrivano accompagnati dalle mamme delle mamme o dei papà. La storia è più o meno che la mamma non se ne può occupare o se n’è andata lasciando il figlio malato alla nonna”, racconta Luisa Napolitano, milanese d’adozione, responsabile di Anestesia Pediatrica del Policlinico di Milano fino ad aprile, quando si è licenziata “per sposare la causa di EMERGENCY” per cui lavora da 8 anni. “Alcune donne pensano che senza figli non si è nessuno e quindi bisogna averli, ma vivono in una comunità femminile di parenti e vicine di casa che può benissimo fare a meno degli uomini che bevono, sono donnaioli, lazzaroni e se ne vanno”.

   Giulia Pedroni, capoinfermiera, di Reggio Emilia, ha 40 anni, lavora con l’Ong dal 2010 e vive a Entebbe col suo compagno e i loro due figli di sei e tre anni. “Credo che questo stile di vita sia un arricchimento per i bambini” dice. “Mentre i nostri figli crescono felici, i pazienti, oltre alla sofferenza della malattia, spesso sono stati abbandonati da uno o entrambi i genitori, non vanno a scuola, e sono molto segnati, come le loro famiglie. Questo per me è stato uno schiaffo, qualcosa con cui non mi ero mai confrontata. Oltre che dei bambini questo è l’ospedale delle mamme e delle nonne, per cui da madre provo grande empatia”.

      “I bambini malati vengono stigmatizzati perché le loro patologie si attribuiscono a malefatte degli spiriti degli antenati o a fatture degli stregoni. Sono detestati dalla famiglia paterna, dai vicini, dagli altri bambini. Le madri diventano depresse, stressate, ansiose, sviluppano sensi di colpa e per di più sono schiacciate dal peso economico che si devono accollare. I bambini e i loro parenti arrivano qui traumatizzati. Noi li aiutiamo a costruire resilienza” spiega Winnie Ayobo, 32 anni, psicologa. 

   Angela Furini, professoressa di matematica in pensione da tre anni, di Ferrara, non si sentiva pronta a fare la nonna a tempo pieno. Ha scritto il progetto per la scuola del Centro affinché i bambini non siano sempre e solo pazienti. Tanto buie, tetre, sporche e sovraffollate sono le scuole pubbliche locali, tanto questa è luminosa e spaziosa, con una parete in vetro che si affaccia sul giardino e sull’immenso lago. Altrettanto spaziosa e flessibile deve essere la didattica, per adattarsi alle diverse esigenze dei bambini. “È un lavoro che dà soddisfazione perché gli scolari capiscono che stiamo facendo qualcosa per loro e ne sono grati”, nota con piacere. Angela è sorpresa dalla loro disciplina: “Nelle classi locali, anche di 120 alunni, non si sente volare una mosca”. Come imparano tanta disciplina ce lo dirà l’amica Fiona, 25 anni, che non fa parte dello staff e che incontriamo nella sua sartoria: “A suon di vergate! I padri e gli insegnanti sono molto violenti. Le ragazze si mettono più strati di vestiti per attutire i colpi. E comunque, con i padri, anche con quelli come il mio, che non mi picchiava, non si scherza mai: quando sono a casa, bisogna girare alla larga”. 

   Gloria Pelizzo, chirurga pediatra, è direttore di Chirurgia Pediatrica dell’Ospedale dei Bambini Buzzi e direttore della Scuola di Specializzazione in Chirurgia Pediatrica dell’Università di Milano come professore ordinario. “Credo che questo sia l’unico ospedale chirurgico al mondo dedicato al bambino. Siamo qui con i nostri specializzandi per condividere con i medici e gli specializzandi locali l’importanza della chirurgia pediatrica: l’università è universale”, spiega. Ma la condivisione è non solo professionale: “Sono mamma anche io, ho due figli, e credo che il concetto di maternità sia uguale in tutto il mondo. Qui è evidente che la vita è un dono, una cosa semplice che viene accolta per quello che è. Ho ritrovato questa meravigliosa gratuità che in Occidente si sta perdendo. Questa semplicità disarmante mette a nudo i valori fondamentali della vita e ridà senso alla mia scelta di madre e chirurga pediatra”.

   La chirurga Daisy Akurete, 35 anni, ci racconta i suoi equilibrismi per conciliare il lavoro e la famiglia vivendo a Kampala col solo aiuto di una tata. Ha sostenuto il colloquio per il suo posto quando il suo primogenito aveva 17 giorni, lo stava allattando al seno, ed era stato dimesso da due giorni da un ospedale. “È stata una grande sfida ma ce l’ho fatta. Qui si ha tutto per lavorare al meglio e non si improvvisa niente. Ci sono tanti colleghi da cui si impara molto”. Ha fatto sapere di avere il bimbo solo quando aveva otto mesi. Ora è incinta di una bimba, è al settimo mese. Chissà quanti dei colleghi lo sanno, visto che il pancione scompare sotto il camice della sala operatoria.

   Dimiana Raafat ha 30 anni, è di Khartoum. Ha lavorato al Salam coprendo più ruoli nei vari reparti e in sala operatoria, dove ha scoperto la passione per l’anestesia. Quando in Sudan è scoppiata la guerra, la famiglia si è trasferita in Egitto, e lei è venuta qui per completare la specializzazione in Anestesia. È molto felice della sua esperienza lavorativa. Non sa quando potrà rivedere i suoi perché il visto per l’Egitto è stato sospeso per i sudanesi. Ma gli ex compagni di corso rimasti in patria hanno più problemi di lei.

   “Mi piace la vita che faccio per le organizzazioni umanitarie da quando mi sono specializzata al Gaslini di Genova, e non ho intenzione di fermarmi. Qui si lavora come in un ospedale d’eccellenza occidentale, ma in un contesto molto diverso, in cui i genitori si affidano completamente al personale medico, e si curano patologie che da noi non ci sono più perché c’è una densità maggiore di bambini nella popolazione, manca la cura prenatale, e spesso si arriva alla diagnosi delle patologie molto più tardi”, conclude Carola Buscemi, 38 anni, pediatra. 

   Grazie al lavoro di queste e altre donne e dei loro colleghi, i bambini guariranno, o almeno vivranno un po’ meglio, e le loro famiglie non dovranno indebitarsi per il resto della vita. E, come credeva Gino Strada, “aiutare qualcuno a vivere un po’ meglio alla fine è il vero senso di tutto”.