The Remains of Armenia

NOSTALGIA D’ARMENIA

Incontro con Sonya Orfalian, scrittrice e figlia della diaspora armena

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “In seguito all’esodo forzato, parte della mia famiglia sopravvissuta al genocidio armeno è arrivata in Palestina, a Gerusalemme. Poi, il cammino verso una vita degna, in libertà, è continuato, e sono diverse le città in cui abbiamo trovato rifugio. Una di queste è Tripoli in Libia, dove sono nata come rifugiata palestinese. Un’altra meravigliosa città oltremare è Roma, dove, ancora una volta in seguito a un evento storico, la rivoluzione di Gheddafi, sono infine approdata. Qui ho aggiunto una tappa al percorso dei miei antenati e ho trovato rifugio come profuga armena, in quanto figlia di sopravvissuti al genocidio. Non è semplice da spiegare”. Così inizia a raccontarci la sua rocambolesca e romantica storia Sonya Orfalian, figlia della diaspora armena e scrittrice, nell’accoglientissima casa romana piena di libri, musica e spezie, dove vive col suo compagno, il compositore Riccardo Giagni.

   Il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, che aveva coniato il temine “genocidio” per designare l’Olocausto degli ebrei, si era ispirato esplicitamente al “Grande Male”, lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, la metà della popolazione dell’Armenia storica, di cui fu responsabile il governo turco. “Il mio popolo è stato vittima di un genocidio a tutt’oggi negato dalla Turchia e, devo dire con gran dispiacere, anche da Israele. Da allora, sulle terre che furono nostre non resterà più alcun armeno, né donna né uomo” – ricorda la scrittrice. Il 24 aprile 1915 la retata e l’eliminazione di circa 250 intellettuali, notabili, artisti, preti, delegati al Parlamento armeni di Istanbul diede avvio allo sterminio che durò fino al 1922. Il 24 aprile è diventato il Giorno della Memoria del genocidio degli armeni. “Tutti i capifamiglia e gli uomini abili, erano rastrellati e uccisi immediatamente o costretti ai lavori forzati, trattati come bestie da soma. Le donne, i bambini e i vecchi venivano deportati, costretti a marciare senza meta, senza cibo né acqua nei deserti della Siria. La soldataglia che accompagnava queste carovane della morte era armata solo di lame per risparmiare le pallottole e le armi che venivano usate al fronte per la Prima guerra mondiale. Alcuni deportati venivano spinti nei dirupi dove scorrevano i corsi d’acqua, che si avvelenavano con i loro corpi. A volte le donne preferivano gettarsi nei precipizi di loro volontà a essere violentate. Altre erano condotte in schiavitù nelle case dei villaggi”.

   “Ma il desiderio di cancellazione della nostra cultura da parte dei turchi è fallito” aggiunge. “All’interno delle famiglie dei sopravvissuti la cultura armena è rimasta viva e si è tramandata negli anni. Anche io ho sempre lavorato intorno alle mie radici pubblicando dapprima vari libri delle nostre bellissime fiabe tradizionali – fra cui A cavallo del vento (Argo, 2017) -, raccontandole per chi non poteva più farlo. Poi ho scritto della nostra cultura culinaria - La cucina d’Armenia (Ponte alle Grazie, 2009) -, di quel focolare domestico che hanno tentato di spegnere e che però è rimasto sempre acceso nelle case degli armeni in diaspora. Le donne, attraverso la loro dedizione alla famiglia, cucinando per nutrire i bambini sopravvissuti insieme a loro, sono riuscite anche a tramandare la nostra cultura: dalla porta della cucina entrano tantissime tradizioni che riguardano la vita sociale del nostro popolo con i piatti dei giorni delle feste, dei santi, delle ricorrenze che hanno a che fare col ciclo naturale delle stagioni, entrano i canti e tanto altro… le pietanze sono dei monumenti alla memoria. Dopo aver scritto questi libri era arrivato il momento di “gettarmi nel sangue”, il sangue versato dai nostri cari nel genocidio. Ho pensato a quando erano bambini anche se li avevo conosciuti da adulti o anziani, ho cercato di capire cosa avevano passato attraverso rari accenni fatti nel corso della vita, perché la loro esperienza era indicibile, e ho scritto le memorie dei piccoli sopravvissuti al genocidio”. Il libro è stato pubblicato in Francia da Gallimard col titolo Paroles d’enfants arméniens (2021) e poi da Sellerio, Alfabeto dei piccoli armeni (2023). A chi le domanda come mai la pubblicazione sia avvenuta prima in Francia, risponde che “questo per me non ha una grande importanza: un armeno in diaspora è a casa ovunque, dato che la casa è dentro di sé”.

   Poiché siamo di nuovo di fronte all’orrore della guerra, le chiedo cosa pensa del ripetersi della Storia. “Le guerre sono omicidi di Stato. I governanti hanno perso qualsiasi senso di responsabilità. Viviamo in società altamente de-responsabilizzate e prive di sentimento verso ciò che ci circonda: ad esempio la natura, la bellezza delle nostre città e degli esseri umani. Inoltre, non secondario, ci si deve chiedere cosa provocano le guerre: migrazioni, carestie, perdite d’identità. È l’esperienza che ho vissuto in prima persona e che ha segnato la mia esistenza. E sono soddisfatta di vivere in Italia, che nella sua costituzione ripudia la guerra”.

   Tornando alla sua storia, conclude: “La mia è un’esistenza ricca di tante culture che ho assimilato e che conservo gelosamente e felicemente perché mi hanno arricchita, nonostante abbia avuto una vita burocraticamente assai travagliata. E nonostante provi quotidianamente un’enorme nostalgia per ciò che ho perduto. A volte è un sentimento dolce, che curo con affetto e che Marguerite Duras ha descritto mirabilmente: La perdita è uno straordinario strumento di conservazione. Il tempo si ferma al momento del distacco e le impressioni successive non inquinano il quadro che avevi in mente. La casa, il giardino, il paese che hai perduto restano per sempre come li ricordi. La nostalgia – il più romantico dei sentimenti – si cristallizza intorno a quelle immagini come ambra”.