Noi che salviamo vite in mare

NOI CHE SALVIAMO VITE IN MARE

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   «Lo scorso anno, il 13 marzo 2024, mi è capitato di individuare col binocolo un gommone, e ci è sembrato strano, perché c’erano poche persone a bordo. Quando abbiamo lanciato i nostri battelli di salvataggio e siamo arrivati vicini, ci siamo resi conto che erano rimasti solo 25 uomini. Erano in mare da una settimana e avevano visto morire una sessantina almeno di compagni di viaggio, tra cui tutte le donne e un bambino di un anno e mezzo». È solo una delle tante testimonianze di Luisa Albera, capomissione e coordinatrice di ricerca e soccorso della Ocean Viking di SOS Méditerranée, un network di organizzazioni umanitarie attive in Francia, Germania, Italia e Svizzera. «Purtroppo continuiamo a fare il nostro lavoro in mare. In mancanza di una missione di ricerca e soccorso europea, noi possiamo solo cercare di salvare più vite possibili. Ma la situazione sta peggiorando e mi sono rimaste poche parole: siamo sempre più ostacolati, siamo diventati bersagli degli haters», aggiunge dalla sua postazione nel ponte di comando. Luisa, 55 anni, di Torino, parecchi anni di lavoro sulle spalle, prima come consulente informatica, poi nella marina con esperienze con Ong che si occupano di protezione ambientale e infine con SOS Méditerranée: «Come italiana, il problema delle morti in mare mi tocca da vicino». Nel Mediterraneo centrale, nell’indifferenza generale, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), dal 2014 sono morte o scomparse 32.125 persone, cifra «immensamente sottostimata», secondo la stessa organizzazione.

«Nessuno si merita di avere freddo e fame»

   Siamo a bordo della Ocean Viking per conoscere le storie delle donne che lavorano nella ricerca e soccorso, mondo che, come la marina, tradizionalmente le escludeva prima dell’arrivo delle Ong. Perché, mentre il mondo chiude gli occhi, queste donne sono in mare? Justine (per evitare problemi non divulghiamo i cognomi a parte quello noto di Luisa), bretone, 31 anni, membro dell’equipaggio di uno dei tre gommoni di salvataggio, non ha dubbi: «Lavoro in questa organizzazione perché è finanziariamente indipendente. In quanto allo scopo della missione, legalmente non c’è dibattito sul fatto che bisogna salvare chi è in pericolo in mare. Qui siamo all’incrocio tra il mondo umanitario, che opera nel diritto, e quello marittimo, che opera nella solidarietà». Caterina ha 41 anni, è originaria di Montepulciano e vive a Berlino, è dottoressa e responsabile del team medico. Salverebbe tutte le persone in pericolo: «Nessuno si merita di avere freddo e fame, di non sapere come andare al bagno, di provare la paura che la barca si capovolga o si buchi, che si stia andando nella direzione sbagliata, di essere riportato nell’inferno in cui è già stati. Ho conosciuto persone che hanno provato la traversata 8, 10 volte». Françoise, 50 anni, bretone di nascita e parigina d’adozione, infermiera, non è mai stata un’attivista, è in mare per aiutare chi ne ha bisogno. Dice: «Ormai siano considerati attivisti sull’orlo della criminalità. È profondamente sleale attaccare chi tenta di evitare che le persone affoghino. Non è normale». Morgane ha 29 anni e proviene dall’entroterra francese. Quando si è trasferita a Marsiglia le è venuta «la grande idea di diventare marinaia». Poi ha scoperto il mondo della ricerca e soccorso, e ora fa parte dell’equipaggio di uno dei gommoni di salvataggio. «Sul gommone c’è un contatto fisico fortissimo con i naufraghi. A volte cadono nelle tue braccia, ti affidano i loro bambini. Non riesci più ad accettare la narrazione dei media o della politica, che nega la loro umanità». Camille, 33 anni, cresciuta in Belgio da un papà expat italiano, è toccata in prima persona dalla tematica delle migrazioni perché si è sempre sentita straniera, sia in Belgio, sia in Italia. Ha dedicato il suo lavoro alla difesa dei diritti dei migranti e rifugiati. È la responsabile del team di protezione, che dà informazioni affidabili sui diritti delle persone che arrivano in Italia. Anche per la crescita di Nura il tema delle migrazioni è stato fondamentale. Nata 32 anni fa in Italia da mamma marocchina e papà libanese, ha studiato lingue orientali, ha viaggiato per sette anni in Medioriente, e da lì ha cominciato la sua carriera nell’ambito sociale. Ora è facilitatrice culturale. Ammette: «Pensi di aiutare le migranti perché ti senti emancipata, e alla fine scopri che sono loro a insegnarti tanto». Rebecca, 33 anni, gallese trasferita a Bristol, ostetrica, racconta: «Quando torni da una missione non sei come prima. Il lavoro umanitario ti mostra il meglio e il peggio dell’umanità. Nella ricerca e soccorso scopri che le persone non sono più considerate tali, sono ridotte a numeri, problemi, crisi. Noi siamo in mare anche per ascoltare le loro storie, le loro speranze, i loro sogni. Vediamo la loro resilienza, quanto hanno lottato, quanto si sono aiutate fra sconosciute. Vediamo anche cose devastanti che ci consumano nel tempo. Ricordo tutti i nomi di chi abbiamo perso a bordo, ma in un caso abbiamo dovuto aspettare un anno per conoscerlo, durante il quale ho sofferto molto. Era il nome di Rahaf, una bambina di 7 anni che era partita con la sua famiglia. Quando è stata portata a bordo, ha avuto un arresto cardiaco. Siamo riusciti a far battere ancora il suo cuore, ma durante l’evacuazione medica non ce l’ha fatta».

Le donne sono vere combattenti

   Fra i sopravvissuti alla rotta più letale del mondo le donne sono circa il 15 per cento. Lasciano le loro case e le famiglie per le stesse ragioni degli uomini: conflitti, persecuzione, povertà, carestie... Cui si aggiungono violenza domestica e sessuale, matrimoni forzati. A volte viaggiano con i figli per proteggerli, per evitare alle figlie le mutilazioni genitali. Alcuni bambini sono nati nei tremendi centri di detenzione libici. Partono in maggioranza da sole, il che le rende ancora più vulnerabili, e ad altissimo rischio di stupro, rapimento e sfruttamento sessuale. Il team della prima nave di SOS Méditerranée, la Aquarius, nel 2017 ha soccorso da un barcone una donna che aveva il neonato, Christ, ancora attaccato a sé col cordone ombelicale.                                  

   Camille è profondamente colpita dalla violenza che incontrano le donne nei loro Paesi di origine e in viaggio, anche personalmente, perché è stata vittima di violenza sessuale, e crede sia giusto e salutare parlarne. Ed è altrettanto ispirata nel lavoro e nella vita dalla loro resistenza. Per Françoise, quando le vede sui barchini, sono pura vulnerabilità. Ma quando le ascolta, sono pura speranza. Morgane le rispetta perché sono combattenti, molto più forti di lei, e perché le hanno fatto capire quanto è fortunata: «Vorrei che avessero la mia libertà, e anche di più». Non c’è nessuna, tra loro, che non ne sottolinei con ammirazione la resilienza.

Una tragedia umanitaria

   È il 13 giugno. Poco prima dell’alba, il team della Ocean Viking ha salvato 70 uomini, fra cui due minori non accompagnati, tutti del Bangladesh tranne uno dell’Egitto, in acque internazionali della zona di ricerca e soccorso libica. Viaggiavano stipati su un barchino di vetroresina. «Tutte le imbarcazioni dei migranti sono in pericolo» denuncia Luisa, «perché sovraffollate e senza i salvagenti, il carburante, l’acqua e il cibo necessari per compiere la traversata. Se arrivano a Lampedusa è solo perché sono fortunate, il mare non è stato troppo agitato, non si sono perse, non si sono ribaltate, la Guardia Costiera libica non gli ha sparato addosso». 

   La legge Piantedosi (n. 15/2023) obbliga le navi a recarsi nel più breve tempo possibile nei porti assegnati, ostacolando salvataggi multipli. Spesso la prassi assegna porti lontani - solo alle navi delle Ong, che hanno trasportato negli ultimi due anni in media l’11 per cento dei migranti sbarcati in Italia -. Per questo abbiamo navigato tre giorni per sbarcare 70 naufraghi nel porto di Marina di Carrara, a 624 miglia nautiche, cioè quasi 1.160 chilometri, dal luogo del soccorso. La nave ha i certificati per poterne trasportare 400. Per raggiungere porti lontani in due anni la Ocean Viking ha percorso 63.207 chilometri, aggiungendo 171 giorni di navigazione e più di 1.332.208 euro in carburante. Soprattutto, ha dovuto prolungare le sofferenze dei superstiti e ridurre il loro numero da 278 a 128 a missione. 

   SOS Méditerranée dal 2016 ha soccorso 42.524 persone. Ha tre scopi: salvare più vite possibili, proteggerle fino all’arrivo in un luogo sicuro e testimoniare la tragedia umanitaria nel Mediterraneo, dando voce ai sopravvissuti e rendendo omaggio ai morti mantenendone viva la memoria.