La maman dei bambini di strada

La maman dei bambini di strada

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “A inizio del 2001 mi sono ammalata della peggior forma di malaria celebrale che ha il 70% di mortalità e lascia il 90% dei sopravvissuti con handicap fisici e mentali per il resto della vita. Durante il mese in cui sono stata in coma, ho avuto un’esperienza di pre-morte. Non ho attraversato il tunnel di cui molti parlano, mi sono trovata direttamente nella luce, in una pace che non può essere descritta a parole. C’era un arco immenso, bianco su bianco, ed eravamo in attesa di entrare. Io ero il numero quattro, gli altri tre erano come di sacchi di farina a terra e sapevo che erano uomini. E a un certo punto una donna con un gran mantello con cappuccio nero mi ha preso il braccio e mi ha spinta giù, facendomi risvegliare. Mio fratello, che ho trovato vicino al mio letto, persona molto razionale, mi ha detto che lo sapeva, perché nel reparto di terapia intensiva eravamo in quattro, e gli altri tre, uomini, erano morti”. Barbara Hofmann mi sta raccontando la sua storia nella sua casa nel bush a un quarto d’ora da un oceano turchese e lapislazzuli dove i turisti vanno a fotografare le balene. Ma ancora più sorprendente del suo viaggio ultraterreno per me è quello terreno.

   Nata 63 anni fa nella Svizzera interna da mamma tedesca di origine nobile e papà svizzero liutaio e musicista, Barbara, dopo aver lavorato sette anni nella gestione finanziaria, si ritrova “per caso”, per un’istituzione internazionale, in Mozambico. È il 1989 e nel Paese infuria la guerra civile, che finirà nel 1992. La giovane svizzera scopre i bambini soldato, gli orfani di guerra, i bambini di strada e prende una grande decisione: “Si parlava moltissimo di fare ma in realtà ben poco si faceva. Dunque ho deciso di agire”.

   Poiché per l’approvazione del governo di un progetto serve un’organizzazione, lascia il suo lavoro, rientra in Svizzera, fonda ASEM, l’Associazione a Sostegno dell’Infanzia Mozambicana, vende tutti i suoi beni, e torna a Beira, la seconda città del Paese. Oltre alla guerra, c’è una siccità terribile, e come sempre i bambini pagano il prezzo più caro. Inizia il suo lavoro col Programma della zuppa: con la partecipazione dei mozambicani, anche quelli che possono levarsi solo un pomodoro o mezzo pugno di riso, e la disponibilità del pozzo di una moschea e del cortile di un vicino, garantisce un piatto di zuppa al giorno e l’acqua da bere e per lavarsi a 300 bambini fino a sei mesi dopo la fine della guerra. “Quando chiedevo ai bambini, che cosa vorresti, qual è il tuo sogno? La risposta era sempre la stessa: poter mangiare senza rovistare nella spazzatura e dovermi prostituire, e andare a scuola” dice. Quindi, dopo aver vinto una sua battaglia contro il governo e ottenuto il terreno, con l’aiuto dei ragazzi più grandi e degli alpini della missione di peacekeeping ONUMOZ costruisce il primo centro, “dove siamo diventati una famiglia”. Ora i centri sono quattro: due a Beira, uno a Vilankulo e uno a Gorongosa, e ASEM ha sede anche in Italia, Mozambico, Canada e USA. Per il suo impegno Barbara ha vinto prestigiosi premi internazionali come THE ONE International Humanitarian Award nel 2014. Ma il più importante è essere riconosciuta come maman dai 200.000 bambini che ha tolto dalla strada, fatto educare e reinserire nelle comunità.

   Come ce l’ha fatta da straniera, da bianca, da donna, in un Paese dove i bambini sono merce per i trafficanti umani, di organi, per la prostituzione e lo spaccio di droga? “Ancora me lo chiedo e non lo so” ammette. “Ho ricevuto diverse minacce di morte da locali e internazionali. Una notte ero con i miei tre figli che all’epoca erano piccoli, e sono entrati in casa degli sconosciuti armati di machete. Ho chiesto loro quanto fossero stati pagati, mi hanno detto quattro dollari, gliene ho offerti quattro e mezzo e siamo momentaneamente diventati “amici”. Un’altra volta hanno provato a uccidermi mentre guidavo”. E come ha potuto crescere tre figli, essere maman di migliaia di bambini, raccogliere i fondi, gestire i centri con tutto il lavoro che comportano? “Nei periodi più duri dormivo da un’ora e mezza a tre a notte e mangiavo tre volte alla settimana. Ma come fai dire che non ce la fai più e te ne vai a bambini che si contendono il cibo con i cani randagi nelle discariche, alla ragazza di 18 anni che si prostituisce da quando ne ha sei e che ti dice che non le fanno più male e li ha perdonati? O al bambino, anche lui di sei, che si è fatto sfondare il culetto – l’ho portato in ospedale per la ricostruzione - per un piatto di polenta? La rabbia non serve a niente perché rende irrazionali. Io provo a fare il braccio di ferro con l’ingiustizia e a cambiare le cose, a aiutare”.

   Forse l’aspetto più sorprendente di questa storia è che maman vive come San Francesco e non ha paura di niente, “perché la paura è legata al possesso”. Non è religiosa anche se ha una fortissima spiritualità basata sull’unione con la madre terra. Pur lavorando nel direttivo di ASEM, ha scelto di vivere di donazioni, senza stipendio né rendita. Ama i gatti e ne ha tanti, li chiama tutti con lo stesso nome, Chat, gatto in francese, e dunque ha sempre un gatto. La casa in cui abita da nove anni nel bush ha il tetto di paglia da cui entra tanta polvere. Il bagno è all’aperto, un recinto incannucciato semicircolare, con un buco nella sabbia. Non c’è acqua corrente né elettricità ma dei vecchi pannelli solari che mi hanno fatta penare per ricaricare la batteria del computer. Eppure è piena di bellezza! Il terrazzino/veranda costruito attorno alla chioma di un albero ha la vista su un laghetto e sul cielo trapuntato dalla via lattea e dalle stelle. La luce che entra da 17 aperture, l’arredamento di legno e stoffe, i colori sono quelli di un’artista. Come piena di ricchezza è la povertà di Barbara, che parte senza ricambio per andare a ritirare un premio o a fare una talk all’estero e torna con quattro valigie piene di vestiti e tanto altro. Altrettanto unico è il suo progetto di inoltrarsi ulteriormente nel bush nell’età in cui generalmente si desidera una buona pensione e l’ospedale vicino: “Andrò a vivere in una pagliote (la capanna tradizionale di paglia), coltiverò un pezzetto di terra, e la mia pensione saranno i miei 200.000 figli che sono la ricchezza dell’Africa. Aiuterò chi mi viene a trovare a risolvere i suoi problemi, perché è ciò che so fare”.

   Ci avverte però di non santificarla: “Quando faccio presentazioni, conferenze, incontri, molte persone mi dicono che sono bravissima, eccezionale, e mi mettono su un piedistallo alto dove non possono salire. In realtà non sono un’eroina, e questa è solo una scusa per giustificare il loro non fare. Io faccio notare che per essere bravi non c’è bisogno di andare in Africa. Si può amare il vicino sgradito, fargli un sorriso e chiedergli se gli si può dare una mano invece di mandarlo a quel paese. Però per arrivare lì, il primo passo è cominciare a rispettare, a perdonare, ad amare sé stessi. Questa è la radice dell’albero che poi crescerà”.

   Infine un ultimo sorprendente dettaglio, perché le storie sono fatte anche di dettagli. Maman è bella, sorridente e ben curata, di una femminilità pienamente realizzata e felice molto diversa da come ci si immaginerebbe. Al termine di un mese di convivenza, ha accettato di essere fotografata da sola durante un viaggio di 12 ore tra Beira e Vilankulo, 537 chilometri di slalom atletico fra buche e voragini in nuvole dense di polvere – al volante, ovviamente, lei. “Quando arriviamo” mi ha proposto. Per fortuna siamo arrivate col buio e abbiamo rimandato lo shooting alla mattina stessa del mio volo per l’Italia dopo un breve riposo. E ci siamo divertite.