Reading Malalai Joya in Herat

LEGGERE A HERAT MALALAI JOYA

foto e testo di Laura Salvinelli

 

 

   E' uscito anche in Italia il libro di Malalai Joya A woman against warlords, in corso di pubblicazione in 18 paesi, edito da Piemme col titolo Finché avrò voce. L'ho comprato a Roma, messo in valigia, e letto a Herat, dove ho lavorato su commissione della Cooperazione Italiana e della Ong Aispo per la realizzazione del mio libro fotografico Hospital Life in Afghanistan (in uscita per Postcart edizioni) sui loro progetti di sostegno alla sanità negli ospedali della città: il Regionale, di cui fa anche parte il Centro Ustioni, e il Pediatrico. Per una ritrattista come me, l'ospedale è un interessantissimo osservatorio su tutta l'umanità: prima o poi, all'ospedale ci vanno persone di ogni genere, età, religione, classe sociale, gruppo etnico. L'ospedale è dunque un forziere pieno di storie di sofferenza e speranza, in breve, di vita. Leggere Malalai a Herat mi è stato di grande aiuto nel cercare di comprendere la più terribile delle storie che vi ho trovato, quella di un fenomeno finora estraneo alla cultura islamica, il più estremo, disperato e carico di sfida di un numero in vertiginoso aumento di donne afgane: "khod soozi", autoimmolazione, suicidio col fuoco. Nella vita di Malalai ho letto non solo la profonda comprensione della sofferenza, ma anche l'indicazione, e la realizzazione, di un'alternativa positiva e possibile.

   La storia di Malalai, secondogenita di dieci figli, nata nel 1978 in un piccolo villaggio dell'Afghanistan occidentale, si intreccia con quella della guerra infinita del suo Paese, e incarna, a partire dal nome, lo spirito afgano di resistenza e amore per la libertà. Malalai, datole dai genitori, in onore della sua omonima di Malwand, icona romantica che nel 1880 sacrificò la sua vita per incoraggiare in battaglia i combattenti contro gli inglesi, guidandoli con poetiche parole di sfida, con in mano la bandiera afferrata a un portastendardo caduto. E Joya, cognome preso per proteggere la sicurezza dei suoi cari, in ricordo di Sarwar Joya, scrittore, poeta e costituzionalista che agli inizi del Novecento pagò con ventiquattro anni di prigione e la morte il suo desiderio di giustizia.   

   Tre giorni dopo la nascita di Malalai il colpo di stato appoggiato dall'Unione Sovietica ricordato come la "Rivoluzione di Aprile" rovescia il regime di Mohammed Daud Khan. Entro un anno il paese è invaso dai sovietici e, insieme alla famiglia, e a milioni di altri afgani, trova rifugio nei campi profughi, prima in Iran, poi, quando raggiunge l'età scolare, in Pakistan, a Quetta, dove c'è la scuola dell'organizzazione ancora oggi semi-clandestina RAWA (Associazione rivoluzionaria per le donne afgane), sorta negli anni Settanta per difendere i diritti delle donne. Durante la vita nei campi profughi, in case di fango e mattoni tirate su in fretta, spesso senza porte, quando la mamma si legava la sorellina neonata con uno spago per evitare che un lupo o una volpe la ammazzassero nel sonno, i sovietici si ritirano dall'Afghanistan nel 1989, e il paese devastato viene travolto dalla guerra civile dei fondamentalisti signori della guerra, fino all'instaurarsi nel 1996 del regime dei talebani, corrotti e medievali. Malalai rientra in Afghanistan nel 1998, dopo quasi sedici anni di esilio, per lavorare come assistente sociale dell'OPAWC (Organizzazione per il miglioramento delle condizioni della donna) a Herat. Coperta dal quel sudario per un essere vivente, e che è solo l'ultimo dei problemi delle donne afgane, sotto a quel burqa col quale l'amatissimo padre le dice che cammina come un pinguino, nasconde libri e quaderni per insegnare nelle scuole clandestine per ragazze, la maggior forma di opposizione al regime talebano. In Finché avrò voce racconta non solo di raccapricciati storie di orrore, come quella della fustigazione della povera salma di un ragazzo scoperta senza barba dai talebani, ma anche di resistenza e solidarietà, e di quella leggerezza inimmaginabile per chi non ha mai messo piede in Afghanistan. Come la pagina sullo strepitoso successo del proibitissimo film Titanic: venivano etichettati come Titanic stoffe, shampoo, cipolle, pomodori e melanzane: in breve tutto il nuovo mercato di Kabul venne chiamato Titanic, e il nome gli rimase per anni. Si sparse anche la voce che, nel suo sermone, un mullah avesse affermato che coloro che disubbidiscono a Dio saranno annientati come il Titanic. Dal che tutti compresero che il film era stato visto persino da coloro che lo avevano proibito

   Dopo l'Undici Settembre 2001, in quel che restava del paese dopo l'invasione sovietica, la guerra civile e il regime medievale delle lunghe barbe, arrivano gli americani, accolti prima con speranza e poi con insoddisfazione e rabbia sempre maggiori: il popolo afgano è stato tradito una volta di più, tradito da coloro che pretendevano di volerlo aiutare: siamo ancora alle prese con l'occupazione straniera e con un governo spalleggiato dagli americani, ma costituito da signori della guerra che sono esattamente come i talebani. Malalai decide di dar voce a chi non ha voce, e di entrare in politica: come puoi catturare i cuccioli della tigre, senza entrare nella sua tana? Nel 2003 fa parte dei delegati della Loya Jirga, l'assemblea degli anziani, denunciando col suo celebre primo discorso di tre minuti i signori della guerra che le siedono accanto. Succede il finimondo, viene insultata come prostituta, comunista e, ovviamente, infedele. Da allora vive costantemente sotto minaccia di morte, ma non si ferma: nel 2005 è eletta al parlamento per rappresentare la provincia di Farah, fino alla sua espulsione anticostituzionale del 2007. E, più viene minacciata e censurata, più la sua fama aumenta, fino a viaggiare in tutti i continenti (esclusa l'Africa), a vincere premi, a incontrare persone, che quanto più sono importanti, quanto meno rafforzano le sue motivazioni. Memorabili le poche righe sull'incontro con D'Alema: dopo pochi minuti, ho capito perfettamente che non avrebbe mosso un dito per aiutare il popolo afgano, o quelle sulle lacrime di coccodrillo di Karzai. Sono invece il popolo dei poveri, derelitti, affamati afgani, e i cittadini democratici di tutto il mondo a darle fiducia.

   La visione politica di Malalai è semplice e radicale. Facendo attenzione a distinguere i veri mujaheddin - i patrioti che, come suo padre, hanno combattuto contro un paese ateo, ma non per imporre la loro religione, bensì per difendere la propria nazione dall'invasione - dai mujaheddin criminali - signori della guerra, jihadisti, fondamentalisti sostenitori della teocrazia e del fascismo che si sono scannati fra di loro, commettendo crimini orrendi contro il proprio paese, e che ora siedono in parlamento appoggiati dagli Stati Uniti - denuncia che gli afgani sono stretti tra due nemici: da un lato i talebani (che si stima che abbiano riconquistato il 74% del territorio) e dall'altro le truppe USA/NATO, unitamente ai loro amici, ovvero i signori della guerra. E' una visione laica: la religione è una faccenda privata, che non deve avere nulla a che vedere con la politica e il governo [...], cosa che di per sé garantisce il diritto dei cittadini alla libertà di religione. E infine, nonostante la coscienza di tutti i problemi drammatici del paese, dall'occupazione degli Stati Uniti e delle forze armate di quarantadue paesi stranieri, alla povertà (il 70% degli afgani vivono con meno di due dollari al giorno), all'analfabetismo (oltre la metà degli uomini, parlamentari compresi, e l'80% delle donne), alle condizioni sanitarie penose (l'aspettativa di vita raggiunge a malapena quarantacinque anni), alla corruzione e all'incredibile sviluppo della produzione dell'oppio (secondo il Fondo Monetario Internazionale aumentata del quattromila per cento dal 2001), e di cannabis, che va ad arricchire solo i signori della guerra, la visione di Malalai è fiduciosa nel futuro. A causa delle ridotta aspettativa di vita e delle vittime di guerra, la popolazione afgana ha la più alta percentuale di giovani del mondo intero, e questo popolo di giovani è molto politicizzato, desideroso di conoscere per la prima volta la pace, ma sempre più arrabbiato. E avverte: se la situazione dovesse volgere al peggio e non lasciarci altra scelta che quella tra la morte e la libertà, io sarei pronta a imbracciare il fucile per difendere il mio paese, la democrazia e i valori in cui crediamo. Dopo tutto, è la stessa scelta fatta da molti martiri della generazione di mio padre.

   Malalai si rivolge anche a noi occidentali, sfatando alcuni dei nostri miti, a partire da quello di Massoud, finto "eroe nazionale" che i francesi hanno cercato di rendere leggendario, in realtà un criminale come tutti gli altri signori della guerra, colpevole di massacri e stupri di massa, oltre di essersi arricchito personalmente rubando pietre preziose e saccheggiando il paese. Sfata il mito che attribuisce ai talebani le pagine più tenebrose della storia recente: per quanto corrotto e medievale sia stato il loro governo, le peggiori atrocità sono state commesse durante la guerra civile. Infine, quello secondo cui l'Afghanistan è "da sempre" ingovernabile e l'oppressione delle donne è “da sempre" un elemento radicato nella cultura afgana: anche perché è lo stesso stereotipo che giustificherebbe l'occupazione degli stranieri.  Furono gli Stati Uniti, il Pakistan e l'Iran ad armare i signori della guerra (jihadisti) negli anni Ottanta , e armandoli scatenarono il fascismo religioso che ha sconvolto l'Afghanistan negli ultimi decenni [e] ridotto a zero i diritti delle donne. Finché avrà voce, Malalai ce lo grida: non abbiamo bisogno di questa interminabile "guerra al terrore" capitanata dagli Stati Uniti, una guerra che, di fatto, è  contro il popolo afgano. Noi non siamo terroristi: siamo le vittime del terrorismo

   La storia più triste che racconta è quella di Rahellah, che, rimasta orfana dei genitori, era andata a vivere da uno zio malvagio, il quale un brutto giorno aveva deciso che fosse arrivato il momento che la ragazza, sedicenne, sposasse suo figlio tossicodipendente. Scappata di casa, Rahellah fu accolta nell'orfanotrofio dell'OWPAC. Dopo qualche tempo però si presentò lo zio che, fingendosi gentile, riuscì a convincere gli assistenti sociali del centro a lasciare che la ragazza tornasse in famiglia per qualche giorno. Rahellah piangeva e non voleva andare, ma la convinsero che tutto sarebbe andato bene. Invece, appena arrivata a casa, un mullah, d'accordo con lo zio, la sposò a forza col cugino, e subito dopo la giovane coppia fu mandata a vivere in Iran. Disperata, la povera Rahellah si suicidò dandosi fuoco.  E ci vuole la forza di Malalai, per poter vedere la resistenza anche nel gesto che nega la vita. Le centinaia di donne afgane che si danno fuoco non si suicidano soltanto per sfuggire alla loro vita impossibile: lo fanno per chiedere giustizia. Questi strazianti casi di autoimmolazione sono atti di sfida oltre che di disperazione e queste donne non sono soltanto vittime, ma simboli di resistenza: sono il primo passo di più ampie proteste contro l'ingiustizia. Ricorda e dà nuova vita a quello che ripeteva sempre Meena, la fondatrice di RAWA, assassinata dai fondamentalisti legati al partito di Gulbuddin Hekmatyar nel 1987: le donne afgane sono come leoni dormienti. Quando si sveglieranno... avranno un ruolo determinante nella rivoluzione che scuoterà il paese. 

    Ce ne sono tante di Rahellah nel Centro Ustioni di Herat, oltre ai pazienti vittime di esplosivi o di incidenti domestici. Preferisco non farne i nomi, né raccontare i dettagli delle loro storie, che sono comunque sempre variazioni della stessa favola crudele del matrimonio forzato della povera ragazza o ragazzina vittima di parenti malvagi, soprattutto mariti e suocere, ma anche cognati, padri, fratelli, o zii. Le poche che sopravviveranno senz'altro non gradirebbero che si sapessero. Al dottor Mohammed Arif Jalali, democratico direttore del Centro, si illuminano gli occhi quando gli chiedo cosa ne pensi di Malalai, e con orgoglio, mi risponde che è la più coraggiosa delle donne afgane, e si lancia in un'appassionata dichiarazione contro i mullah, i talebani, i mujaheddin, e infine la "guerra al terrore" degli americani. Nello scorso anno islamico, che è finito a marzo, dichiara che al Centro sono arrivati 95 casi di autoimmolazioni, dalla provincia di Herat e da quelle limitrofe, e nei successivi sei mesi, ben 70, di cui due uomini. Uno dei due l'ho conosciuto, una creatura sordomuta che vive nel suo mondo speciale, e che ha avuto la fortuna di rientrare nel 25-30 % dei casi di sopravvivenza. Quasi tutte le donne che arrivano bruciate hanno tra i 13 e i 25 anni, e secondo il dottor Jalali le cause che le spingono a cospargersi di benzina e darsi fuoco sono da attribuire alla povertà (il 90-95%), all'ignoranza, ai matrimoni forzati, alla poligamia e a tutto quel sistema patriarcale appoggiato dai mullah che fa sì che, nonostante la legge afgana vieti il matrimonio prima dei sedici anni, 60% delle ragazze vengano ancora di fatto vendute anche a nove-dieci anni. Il Centro Ustioni, ben diretto e gestito dal lavoro del dottor Jalali e del suo staff,  è aiutato da un progetto della Ong Aispo, con fondi della Cooperazione Italiana, e necessita di ulteriori sostegni per ampliare il numero del personale, e dei letti. Soprattutto, il dottore sa che l'intuizione di Malalai è quella giusta, e che bisogna lavorare politicamente, socialmente, psicologicamente per eliminare le cause che spingono all'autoimmolazione, per indirizzare la forza delle donne non contro se stesse ma contro un mondo che non va. Per vedere le future farfalle nelle crisalidi di dolore che vengono sfasciate, medicate e rifasciate come mummie tutte le mattine alle dieci.

   Di queste spose bambine ne ho incontrata una il primo giorno di lavoro all'Ospedale Pediatrico: Perigol, di cinque anni, scambiata, con l'aggiunta di 70 pecore, per una moglie, che suo padre sposerà fra un mese. Quello che probabilmente la sua prossima famiglia non sa è che la bambina è malata di meningite, e che, se dovesse sopravvivere, rimarrebbe con deficit neurologici. Temo che, per risarcimento, la nuova famiglia possa chiedere molte altre pecore ancora, e che il padre non sia in grado o non voglia darne, e dunque sarebbe la malinconica Perigol a finire male. Gli ospedali afgani sono pieni di queste storie. 

   Accanto al Pediatrico, a una quindicina di chilometri da Herat, in un paesaggio lunare da Piccolo principe tanto meraviglioso quanto inospitale, si trova un campo di quelli che tecnicamente vengono chiamati IDP (internally displaced persons), cioè sfollati. Anche questo fatto di casette di fango e mattoni tirate su in fretta come quelle in cui è cresciuta Malalai. Nell'atmosfera sonnacchiosa da fine Ramadan, un uomo trasporta un vecchio in una carriola, chissà dove, verso l'orizzonte di desertiche montagne. Un gruppo di ragazzini cerca di far volare uno dei primi aquiloni della stagione che sta cominciando. Notata la mia presenza, mi accerchiano divertiti, e si moltiplicano, sbucando curiosi dai muri dorati delle loro piccole abitazioni. Uno di loro, che vive a modo suo, sicuramente diverso dagli altri, a torso nudo, apre le braccia, e inizia a rotare come in una gioiosa danza sufi. Appaiono anche le ragazzine, e poi i genitori, dagli occhi dolci e amichevoli. Fino a che non interviene un giovane uomo dall'aria grave e barba lunga, che con chissà quale autorità, che comunque rispetto, chiede cosa stia succedendo, e mostra di non gradire il disturbo della visita. Me ne vado, pensando che è vero che basta un guastafeste per rovinare quanto hanno cercato di fare tutti gli altri nel campo delicatissimo delle relazioni, ma se è, e rimane da solo, il futuro non sarà suo.