Nomadic Lives

VITE NOMADI

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   Ci siamo accorti dell’esistenza del Niger – finora confuso dai più con la Nigeria - perché è uno snodo fondamentale del flusso dei migranti, l’ultimo prima di raggiungere la Libia e da lì l’Europa, quello dove “bisognerebbe fermarli” per “aiutarli a casa loro”. L’incarico di documentazione fotografica dei progetti di sviluppo dell’ONG CISP (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli), finanziati dall’Unione Europea per il contenimento dei flussi migratori, mi apre le porte di un mondo in cammino fatto di migranti, nomadi e stanziali in trasformazione. È un’ottima occasione per raccontare anche gli aspetti positivi di un Paese i cui reportage sono stati solo focalizzati su quelli negativi, e per entrare in un mondo femminile di cui sappiamo poco o niente. Il Niger ha ottenuto per molti anni il triste titolo di Paese più povero del mondo, ora passato alla Repubblica Centrafricana. In una terra inabitabile per due terzi per il deserto del Sahara e sempre più inospitale per il cambiamento climatico, causa di crescente desertificazione e continue alluvioni, si batte un altro record pericoloso, quello del tasso di natalità più alto del mondo: la media di 7,6 bambini per ogni donna. Il 52% della sua popolazione in costante aumento ha meno di 15 anni. E 15 anni è l’età in cui per legge possono sposarsi le bambine. In Niger sconfinano per razziare i suoi poveri villaggi molti gruppi terroristi, da Boko Haram dalla Nigeria a varie organizzazioni islamiste dal Mali, oltre ai banditi che si nascondono dietro di loro, e si riversano profughi, rimpatriati e migranti di tutta un’area di conflitti. Quello di cui non si parla è la sua stabilità, sorprendente date le tante emergenze, e la convivenza quasi sempre pacifica di un arcobaleno di etnie diverse: Hausa, Djerma-Songhai, Tuareg, Tubu, Kanuri, Buduma, Peul, Arabi, Gurmantche per non parlare dei sotto-gruppi, tutti minoritari in Niger e maggioritari al di là delle sue frontiere. Le rivolte dei Tuareg, pur senza volerle sottovalutare, sono state l’eccezione e non la regola. La stabilità è rafforzata da una pratica di gran civiltà: il cousinage à plaisantere (parentela scherzosa), che smorza i conflitti inter-etnici con la mediazione. Le etnie si considerano cugine a coppie ed esprimono la relazione prendendosi in giro anche pesantemente, esercizio che insegna a non essere permalosi. Se due gruppi che sono in lite non sono “imparentati” ce n’è sempre un terzo che lo è e fa da mediatore. Il Niger non è solo poverissimo e a rischio di esplosione per molte gravissime crisi, è anche assai mediatore e accogliente.

   La Rappresentante nel Paese del CISP Marta Abbado e la responsabile del Programma Cultura e Sviluppo Sandra Fernández Ortega vivono da 11 e 8 anni in una nazione che amano profondamente, dove il CISP opera dal 2006 con programmi di aiuto umanitario e sviluppo ed una tradizione di azioni di sostegno della cultura locale. “Non c’è una formula per arrestare il fenomeno delle migrazioni, che credo sia inarrestabile. La via della migrazione passa qui da 30 anni: siamo la seconda generazione che l’affronta. La grossa frontiera tra l’Africa e l’Europa non è il Mediterraneo ma il Sahara, per cui dallo scorso anno si comincia a usare la parola cimitero. L’uso del GPS peraltro l’ha reso accessibile a tutti, mentre prima solo i Tuareg sapevano attraversarlo. Noi cerchiamo un risultato immediato e durevole, per questo lavoriamo con le famiglie intere, non solo con gli uomini che partono, poiché la migrazione è nella stragrande maggioranza maschile. E lavoriamo con la cultura perché la durabilità dei risultati dei progetti dipende dall’impatto culturale”, dice Marta. Sandra aggiunge: “La salvaguardia della cultura rafforza l’identità delle popolazioni. È fondamentale soprattutto ora, vista la forte rottura generazionale tra chi ha 15-20 anni e chi ne ha più di 35, per cui si rischia di perdere moltissimo per influenze che vengono dal mondo occidentale, arabo, cinese. Sosteniamo la cultura e l’artigianato nigerini per la stabilità e la pace. Stiamo anche restaurando la bellissima città vecchia di Agadez, parte del patrimonio UNESCO dal 2013. In tutte le attività offriamo lavoro ai giovani della regione.”  

   È un mondo in movimento – fatto, ricordiamolo, per più della metà da bambini di meno di 15 anni - di nomadi, nomadi che diventano stanziali, stanziali che si spostano, etnie che si mescolano, rimpatriati, sfollati, profughi e migranti. Le donne tradizionali sono muscolose, hanno le mani ruvide e non hanno voce fuori di casa. Sono sfiancate dal lavoro incessante e dalle gravidanze continue. Si occupano dei bambini, del marito, delle persone anziane, della casa, degli animali, dei campi, e col piccolo commercio arrotondano le entrate del marito o mantengono la famiglia. Spesso non vanno a scuola per aiutare le madri. Sono imprenditrici ma non lo sanno. Sono forti ma senza voce. Per ascoltare voci femminili nigerine devo avvicinarmi alle donne di ceto medio o alto i cui padri almeno sono istruiti.

   Quando incontro Madame Inoussa Fatima Djiré, classe 1962, tutta una vita al servizio della promozione della cultura e dell’arte nigerine, attuale vicesegretario generale del Ministero della Cultura, con gentilezza squisita si scusa di non poter indossare gioielli né un abito da cerimonia per il suo ritratto, perché è vedova da pochi mesi. La fotografo in una classe femminile di un centro socio-educativo che ha fondato e diretto. Mi racconta la sua storia, il suo amore per la cultura e di come sono cambiate le donne. “Vengo da una famiglia Djerma-Songhai. Sono stata cresciuta dalle quattro mogli di mio padre, uno dei primi allievi del sistema scolastico francese, e dalla nonna che mi raccontava le storie che ho cominciato a scrivere. Le nonne ci insegnano le nostre origini, e a vivere nelle comunità come degni discendenti, bandendo la menzogna. La mia mamma mi raccontava che erano i bambini delle famiglie dei capi, come lei, che andavano a scuola ma sua nonna, che era contraria, la nascondeva nei granai dietro al villaggio quando i notabili venivano per le iscrizioni. Io invece ho potuto laurearmi in Lettere moderne all’Università di Niamey e dirigere dipartimenti dello spettacolo, reti nazionali di biblioteche e centri culturali prima di sposarmi a 34 anni, mentre le altre lo facevano a 14 anni. Mi sono nutrita della letteratura africana impegnata contro il colonialismo, e adoro la letteratura orale, le leggende e le epopee raccontate sotto l’albero del villaggio, le storie delle famiglie cantate dai griot (cantori e poeti, uomini e donne) e le canzoni delle cantautrici tradizionali perché sono piene di insegnamenti. Mio marito ha preso una seconda moglie e io, come aveva fatto mia madre, ho preferito che vivessimo tutti insieme, senza inganni né sotterfugi, purché ognuno riconoscesse il suo ruolo e i sui limiti. Effettivamente ho avuto un buon rapporto con la seconda moglie, che dopo aver dato un figlio a mio marito se n’è andata, perché fra loro non funzionava. Le cose cambiano. Guarda come sono segnate le mie mani per aver aiutato tanto la mia mamma, nonostante non tocchi un pestello da anni. Ci insegnavano a fare tante cose perché non si sapeva che marito si sarebbe sposato. Ora le ragazze che studiano hanno le mani lisce e morbide. Ma è un gran bene che le donne abbiano più accesso all’istruzione e possano far ascoltare le loro voci anche fuori casa.”

   Adelle Barry, 26 anni, è scrittrice, studentessa di medicina e sposa. La incontro a casa della mamma con cui vive perché suo marito, che ha sposato da 2 anni, vive e la aspetta in Québec, dove lo raggiungerà appena finita la tesi di laurea che ha iniziato. Ha pubblicato un libro di racconti in Francia (En attendant minuit, Du Net, 2015), è presente in varie raccolte di poesia africana, ha rappresentato il Niger in più Giornate francofone in Francia e Québec, sta scrivendo un romanzo. “Tutto cospira a portarmi alla letteratura”, mi dice appassionata. “Sono cresciuta in mezzo ai libri prima nella grande biblioteca di mio padre, che è stato redattore di un giornale e che mi ha trasmesso l’amore per la lettura e la scrittura, poi nella biblioteca francese.” Adelle rappresenta molto bene un mondo che si sta trasformando, rimanendo fiera delle sue origini e allo stesso tempo aperta al nuovo. Si fa fotografare con un vestito tradizionale. “Mi piace essere identificata come Peul non perché mi voglia differenziare ma per valorizzare la mia cultura. Non perderò le mie radici in Québec: siamo nomadi, andiamo di Paese in Paese e ci sentiamo a casa dappertutto. Dunque, non vedo rischi nel viaggiare. Quello in cui sto cambiando è la rinuncia a restare un po’ in disparte, l’estremo riserbo tipico del mio popolo, che mi faceva aver paura di pubblicare. Dopo aver letto Le lettere a un giovane poeta di Reiner Maria Rilke ho aperto il cuore alla vita e mi sono decisa a mettermi in gioco. Quanto fa bene aprire il cuore e raccontare le storie!” I suoi racconti e le sue poesie svelano una realtà aggredita dal dramma (AIDS, violenze contro le donne, emigrazioni dolorose, incidenti che distruggono ogni equilibrio) ma anche piena di speranza e vitalità, nutrita dalla passione politica e dal potere taumaturgico dell’arte. Il candore del suo mondo rimane intatto nonostante il dramma.

   Master di II livello in Gestione delle industrie culturali ottenuto ad Alessandria d’Egitto, attrice di teatro e protagonista di una serie televisiva, Aminatou Issaka nel 2006 ha fondato il Festival Parole di donne, l’unico in Africa occidentale a inglobare varie arti (teatro, musica, danza, scrittura, pittura). “Per le donne è liberatorio e valorizzante esprimersi attraverso le arti. Parlano dei matrimoni precoci, delle mutilazioni genitali, delle violenze subite, dei loro diritti e dei loro sogni. Ma oltre agli spettacoli che presenta, il Festival è importante per le sue produzioni di musica e documentari.” Aminatou viene da una famiglia mista con madre Peul e padre Hausa di origine Peul. Le chiedo quanto sia difficile fare spettacolo per una donna. “L’arte non viene considerata un mestiere, a maggior ragione per le donne, che sono messe all’indice. Gli uomini hanno delle idee fanatiche sulle donne: devono sposarsi troppo presto - il Niger è pieno di matrimoni precoci - e fare troppi figli, il cui peso cade tutto sulle loro spalle. Non sono attratti dalle donne intraprendenti e che si espongono perché ne hanno paura. Per loro una come me che recita sulla scena e che viaggia è troppo complicata. Preferiscono donne docili, che dipendono da loro facendoli sentire importanti, che stanno a casa o al massimo vanno in ufficio. Infatti a 38 anni non sono ancora sposata, e fino a che mia madre vivrà dovrò abitare a casa sua, perché qui una donna non può vivere da sola, manco se è indipendente economicamente come nel mio caso.”

   Djamila Boubacar Sahabi, detta Mila, 28 anni, figlia di madre metà algerina e metà Tuareg nigerina e di padre Peul nigerino, è epidemiologa, blogger di moda e imprenditoria femminile, stilista. Il padre è stato giornalista e direttore regionale dell’ORTN (la televisione nazionale). “Nel mondo musulmano ci sono molti pregiudizi contro la moda. Le modelle, che con i loro abiti stravaganti rompono i tabù sul mostrare il corpo, sono sempre preoccupate di dove appariranno le loro fotografie: hanno paura delle loro immagini. Divido il tempo lavorando nella sanità e nella moda. In rispetto della mia cultura e soprattutto di mia madre, che ha ancora responsabilità su di me perché non sono sposata, vivo con lei. Una donna della mia età dovrebbe essere moglie e madre. Mi comporto dolcemente con i miei familiari, nella speranza che un giorno accettino la mia visione. Solo di loro mi preoccupo, non degli uomini che finora non mi hanno capita e a cui non permetterò per nulla al mondo di infrangere il mio sogno. Nel mio blog, che sarà presto anche una rivista su carta, intervisto e fotografo stilisti, modelle e donne imprenditrici. Per non essere schiacciata dalla stigmatizzazione della moda l’ho introdotta nel mondo dell’imprenditoria femminile che fa parte della tradizione delle donne africane, pur senza essere stata mai riconosciuta e valorizzata. Ora si tratta di promuoverla e di creare delle iniziative per far sì che le donne siano viste e ascoltate, e offrir loro dei modelli che possano ispirarle e incoraggiarle. Negli abiti che disegno la modernità entra nella tradizione perché uso il pagne (il pareo) di cotone africano, con disegni e colori africani. Anche il turbante è tradizionale perché le nostre regine indossavano sempre un copricapo come corona per mostrare di avere il comando ed essere guerriere, e allo stesso tempo moderno nella sua forma. Amo il contrasto fra il nero e il trionfo dei colori. Intendo valorizzare la donna africana forte, di carattere, coraggiosa, il motore della famiglia e della società, che si sa prendere cura della casa, del marito e dei figli, come del suo lavoro fuori di casa, che non è più solo supplementare, ma fondamentale per la sua realizzazione.”